Tra ricordi e nuovi inizi, Ghostbusters: Legacy, di Jason Reitman, con Mackenna Grace, Finn Wolfhard, Carrie Coon e Paul Rudd
Era scritto nel destino che Jason Reitman si sarebbe ritrovato un giorno a dirigere un Ghostbusters. E non soltanto perché appartenente a quel retaggio-Reitman capitanato da papà-Ivan, regista e sceneggiatore dei primi due capitoli. Perché Jason, in Ghostbusters, c’ha pure recitato. In Ghostbusters II (1989) era quel ragazzino insopportabile e supponente che alla festa di compleanno si burlava dei Ray e Winston caduti in disgrazia dicendogli come:
“Sapete, mio padre dice così, che vendete fumo e mer*a”.
Trentadue anni dopo ecco Ghostbusters: Legacy (2021), o Afterlife, se preferite. Sequel diretto dei primi primi due capitoli vestito di un’elegante cornice da soft-reboot che in realtà di fumo e mer*a ne ha ben poca. È il cuore infatti a far da padrone. Qualcosa di sempre più raro nel cinema hollywoodiano delle grosse major. Un cinema sempre più algoritmico e calcolato dove – specie per via delle problematiche pandemiche – il film come opera d’arte sta sempre più assumendo i connotati di asset economico-industriale.
Non per Ghostbusters: Legacy però, che papà Ivan (qui come produttore esecutivo) ha approvato commuovendosi fino alle lacrime, e che Jason ha voluto celebrare così a post-produzione ultimata nel pieno della pandemia globale da COVID-19:
Un viaggio iniziato 3 anni fa o forse 35 anni fa è completo. Non vedo l’ora di vedere Ghostbusters: Legacy (Afterlife nDr) in una vera sala cinematografica con un gigantesco sacchetto di popcorn. A casa mi sono messo in pari con tutti i classici. Ma quello che mi manca è stare seduto con un pubblico di amici e sconosciuti. E sentire quel brivido collettivo mentre ridiamo insieme o saltiamo fuori dalle nostre poltrone. E sì… Mi mancano anche i trailer.
Nel cast figurano McKenna Grace, Finn Wolfhard, Carrie Coon, Paul Rudd, Logan Kim, Celeste O’Connor; Bill Murray, Dan Aykroyd, Ernie Hudson, Annie Potts, Sigourney Weaver; Olivia Wilde, J.K. Simmons, Bokeem Woodbine, Tracy Letts, e Harold Ramis.
Ghostbusters III – Hellbent, quel terzo capitolo dal development hell diabolico
Trent’anni. Praticamente una vita. È dall’inizio degli anni novanta che si vocifera di un sequel di Ghostbusters II. Solo che al tempo l’intestazione scelta da Dan Aykroyd per la sua sceneggiatura era decisamente più spettrale e accattivante di Legacy: Ghostbusters III – Hellbent. Nello script originale infatti gli Acchiappafantasmi sarebbero stati catapultati in una Manhattan parallela e infernale nota come Manhellton, dove avrebbero infine incrociato i flussi per affrontare un’entità demonica.
Hellbent, insomma, come stadio conclusivo di quella lenta trasmigrazione dei toni narrativi dal comedy-horror del primo capitolo ad horror-comedy del secondo. Alla maniera della trilogia de La casa (1981-1992) di Sam Raimi insomma, seppur ad inerzia invertita.
Hellbent solleticava e non poco l’interesse della Sony. Un po’ meno il cast principale dei primi due film che dopo la ricezione mista di Ghostbusters II preferì non tentare la sorte per la terza volta; in particolare Murray che da allora si è sempre professato allergico ai sequel. Il nuovo gruppo di Acchiappafantasmi avrebbe visto i volti di Ben Stiller, Chris Rock, e Chris Farley. Per un motivo o per un altro però, nonostante il dichiarato ritorno di Reitman alla regia, Hellbent non vide mai la luce. Da qui ebbe inizio un ventennale calvario fatto di continui ripensamenti di Murray e di decine di centinaia di draft di sceneggiatura. A un certo punto si era perfino pensato di ovviare al problema Murray uccidendo Venkman off-screen per ricostruirlo in CGI come fantasma. Non avrebbe comunque funzionato.
Prima di Legacy: la scomparsa di Harold Ramis, l’assurdo ma apripista reboot di Paul Feig
“Deve essere perfetto. Questo è tutto. Non ha senso farlo a questo punto a meno che non sia perfetto. È quello che stiamo cercando di fare“.
Si espresse così Dan Aykroyd nel luglio del 2012. Sono passati ventitré anni da Ghostbusters II e qualcuno in meno dal primo draft di Ghostbusters III – Hellbent. Il nuovo draft di sceneggiatura avrebbe ruotato attorno ad alcune ricerche universitarie avveniristiche che avrebbero spinto gli acchiappafantasmi a fronteggiare una minaccia a livello globale.
Al centro del racconto la squadra originale con un occhio di riguardo e centrale per il Venkman di Murray. La speranza di Aykroyd infatti era che Murray si innamorasse della sceneggiatura venendo così meno alla sua allergia da sequel. Tutto lasciava indicare una direzione finalmente benevola e positiva. C’era grande fiducia attorno alla realizzazione sia da parte di Sony che di Reitman e Aykroyd. Nel febbraio 2014 però la disgrazia: Harold Ramis muore per delle complicanze dovute alla vasculite.
Il progetto viene nuovamente bloccato. Reitman lascia la regia, e nessuno sembra più crederci. Nessuno tranne la Sony che nel 2016 dà il via libera a un remake tutto al femminile dall’omonimo titolo per la regia di Paul Feig. Riadattato l’ultimo draft di sceneggiatura del fu Hellbent, Feig dà vita a una sarabanda di eventi portando in scena il meglio del meglio della nuova comicità al femminile del Saturday Night Live: Kristen Wiig, Melissa McCarthy, Kate McKinnon, e Leslie Jones.
Premesse eccellenti dolorosamente tradite: il Ghostbusters di Feig è un fiasco su tutta la linea. Il buon lavoro di Wiig e McKinnon, e un intreccio appassionante, vengono ripetutamente abbattuti da un umorismo grossolano, e da una Jones sempre fuori tempo comico e insostenibile nella sua caoticità scenica. Un disastro economico e artistico insomma… ma a fin di bene. A detta di Jason Reitman infatti il lavoro di Feig è risultato pionieristicamente prezioso:
“Ogni volta che vedo un film in cui c’è una SWAT c’è quel tizio che entra dalla porta e si prende tutti i proiettili. Sei stato il primo a varcare la porta. Sei stata la persona che ha permesso a me, e a molte altre persone, di realizzare un Ghostbusters su persone di ogni razza, genere; di tutto il mondo. Ci sono tutti i tipi di Ghostbusters che voglio vedere; grazie per averlo reso possibile”.
Ghostbusters: Legacy: sul valore del retaggio e della famiglia
Tre anni dopo, quasi come fosse un moto d’orgoglio dopo il risultato del Ghostbusters di Feig, la Sony annuncia un nuovo Ghostbusters a firma Reitman. Da Ivan a Jason, con la sensazione che – un po’ come Robert Zemeckis con la saga di Ritorno al futuro (1985-1990) – serva quasi un certo bias cognitivo di famiglia per sapere toccare le giuste corde narrative ed emotive. L’avrà sicuramente pensata così Aykroyd che ha commentato la sceneggiatura di Reitman con queste parole:
“Ha scritto una sceneggiatura bella e sincera che prende il vero DNA dai primi due film e lo trasferisce direttamente al terzo. Passava l’eredità a una nuova generazione di stelle, di attori e personaggi.”
Dello stesso avviso Murray che, contro ogni pronostico, riprende il ruolo di Venkman ritornando sui suoi passi allergici dopo più di vent’anni:
“La sceneggiatura è buona. Contiene molte emozioni. Ha molta famiglia “dentro”, con linee (narrative nDr) davvero interessanti. Funzionerà”.
Eppure Reitman non era sempre stato di quest’avviso. Nel 2007 – nel pieno del tour promozionale di Juno (2007) – in un’intervista ad MTV disse che non si sarebbe mai sognato di poter toccare Ghostbusters per un motivo ben preciso:
Sarebbe il Ghostbusters più noioso di tutti i tempi. Non ci sarebbero fantasmi. Sarebbe solo gente che parla di fantasmi“.
E se da una parte le parole suonano un po’ come un prendere le distanze per voler camminare con le proprie gambe lasciando da parte gli scomodi paragoni con papà Ivan, dall’altra la maturità acquisita negli ultimi quattordici anni ha permesso a Jason di plasmare la narrazione di Ghostbusters secondo la sua idea di cinema. Non c’è infatti una sola opera dell’opus reitmaniano in cui il suo autore non parli di famiglia. Sia esso ascrivibile alla sua assenza in personaggi workaholic (Tra le nuvole, Young Adult) che del suo bisogno in forme surrogate (Juno, Tully, Un giorno come tanti).
Non fa eccezione Ghostbusters: Legacy. Tra le fila di una narrazione dall’implicito retaggio registico generazionale padre-figlio, Reitman unisce il valore e il dolore della perdita di Ramis intrecciandola a doppio filo al senso di appartenenza familiare degli Spengler in un formidabile ed elegante gioco di mimesi narrativa dentro e fuori lo schermo opportunamente costruito su di un impianto a metà tra rievocazione nostalgica e nuovo inizio (espediente, in tal senso, non dissimile da quello usato da Abrams e Kasdan per Star Wars: Episodio VII – Il risveglio della forza).
Del resto, proprio per via del peso emotivo che il famigerato terzo capitolo di Ghostbusters si è trascinato lungo il suo semi-infinito inferno produttivo, la nuova vita degli Acchiappafantasmi di Reitman non poteva che essere declinata secondo le tipicità della dramedy familiare. Se però per i fan meno romantici e i critici più disillusi, Ghostbusters: Legacy può risultare un’opera tanto rilevante quanto ruffiana (arrivando perfino a parlare di tradimento dell’idea originale), il modo in cui il bagaglio emozionale viene portato in scena da Reitman è pienamente coerente con la tradizione del capostipite.
C’è un cuore pulsante rivestito di attività ectoplasmatica in Ghostbusters: Legacy. Lo stesso che nel 1984 spinse Aykroyd a inserire Slimer in uno degli ultimi draft di sceneggiatura modellandolo caratterialmente secondo il giocoso e caotico animo dello scomparso John Belushi (il Venkman originale). Lo stesso che vediamo minuziosamente costruito da Reitman lungo lo sviluppo del racconto e infine didascalicamente esplicitato in una struggente climax che è saluto di commiato, ricordo di vecchi amici, e ricongiungimento di padri e figli (e nipoti).
Un nuovo inizio insomma, quello giusto, con cui ritornare ad acchiappare fantasmi al suono della stridente sirena della ECTO-1.