WHIPLASH, la recensione

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Il meritato successo di “Whiplash” è una questione di dettagli. Impossibile non tornare con la mente all’osannato “Shame” di Steve McQueen, in cui un iperplastico Michael Fassbender portava sul grande schermo la propria dipendenza sessuale, misurando al millesimo ogni singola goccia di sudore, movimento del proprio corpo o microespressione facciale, comunicando in tal modo un intero universo emotivo. Alla stessa maniera, in “Whiplash”, l’intensa fisicità del protagonista Andrew (Miles Teller) ricopre un ruolo fondamentale, riuscendo a trasmetterci più di quanto la storia si limiti a raccontare; e ancora una volta, al centro di tutto, troviamo un preciso tipo di dipendenza. La dipendenza in questione, che finisce col trascinare Andrew in un vortice di sforzo psicofisico al limite della sopportazione umana, è la musica. Prendendo spunto da una sua personale esperienza come batterista jazz, il giovane e talentuoso regista Damien Chazelle ci conduce in una dimensione, quella del professionismo musicale, descritta con un’incredibile cura al dettaglio e nella quale assolutamente nulla è lasciato al caso. Ecco, quindi, che la figura di Andrew si circonda di decine e decine di aspiranti musicisti che, come lui, vivono il loro percorso scolastico battendosi per riuscire a emergere dalla massa, gioendo e soffrendo indipendentemente l’uno dall’altro e contribuendo a evidenziare un onnipresente, seppur minimamente palpabile, clima di rivalità che permea l’intera pellicola.
Nel silenzio di un conservatorio semivuoto, la cinepresa di Chazelle si avvicina lentamente a un ragazzo in costante allenamento dietro le pelli di una vecchia batteria. Così si apre “Whiplash”, mettendo subito in luce il determinato carattere di Andrew; lo stesso carattere di chi è consapevole che, nel suddetto ambiente, l’eccellenza nel padroneggiare il proprio strumento musicale smette di essere una scelta e si trasforma in obbligo. Passano solamente pochi istanti, prima che il regista introduca quello che sarà il vero elemento perno di tutto il film: attirato dal suono del giovane studente, il kubrickiano direttore d’orchestra Terrence Fletcher (J.K.Simmons) fa il suo ingresso in scena nell’oscurità della sala prove. Da quel preciso momento la pellicola di Chazelle, nata inizialmente come cortometraggio per la dimensione cinematografica indipendente del Sundance Film Festival e arrivata poi nell’olimpo dei candidati a “Miglior Film” alla prossima cerimonia degli Oscar, s’illumina di un incredibile climax emotivo che, attraverso il titanico scontro di due accese personalità e feroci scambi di sguardi, gesti e battute al cardiopalma (conditi con il miglior repertorio jazz che si possa desiderare), accompagna lo spettatore fino ai tanto temuti titoli di coda.
Il perfetto caratterista J.K.Simmons (Spiderman, Thank You For Smoking), qui nel ruolo di un esigente e rigido mentore in grado di azzerare i membri della propria orchestra con un semplice gesto di mano, rappresenta quello stesso eccesso che il suo personaggio considera necessario per  raggiungere lo status di chi è realmente degno di essere ricordato nel mondo della musica. Completamente assorbito da questa pericolosa concezione dell’arte, l’ottimo Miles Teller (Project X, The Divergent Series) trasforma la sua passione in dipendenza, finendo col perdere la propria percezione sociale della vita, mettendo a rischio la propria salute e rivolgendoci uno spinoso dubbio amletico. Fin dove può arrivare il sacrificio in nome dell’arte e quand’è che possiamo considerarci veramente soddisfatti di noi stessi e del traguardo raggiunto? Il direttore Fletcher ha già la risposta pronta: “Non esistono, in qualsiasi lingua del mondo, due parole più pericolose di Bel Lavoro”.
Rating_Cineavatar_4-5
 recension