Il ritorno della famiglia Dutton, la riscossa del western: la quarta stagione di Yellowstone, con Kevin Costner, Kelly Reilly, Luke Grimes, Wes Bentley, e Cole Hauser
Qualcuno direbbe che il western è un genere ormai in disuso e prosciugato. Che le cariche valoriali dei vecchi cowboy e della Frontiera abilmente raccontati (tra gli altri) da John Ford (Il massacro di Fort Apache, I cavalieri del Nord Ovest, Rio Bravo) non possano più funzionare in un cinema ormai post-postmoderno e in continua mutazione. Finché c’è Yellowstone (2018 – in onda) però il western potrà ancora dire la sua in questi tempi così moderni e dal linguaggio sperimentale.
Scritta e prodotta da Taylor Sheridan (I segreti di Wind River, Hell or High Water, Sicario, Soldado) e John Linson per Paramount Network, l’amatissima serie TV neo-western con Kevin Costner è finalmente giunta alla quarta stagione. Dieci nuovi (attesissimi) episodi sull’avvincente saga familiare dei Dutton. Non solo loro però. Al centro del racconto anche il viscerale legame dei Dutton con lo sterminato e ambitissimo ranch dal titolo omonimo (Yellowstone) di cui sono proprietari da generazioni.
In onda su Sky Atlantic e disponibile in streaming su NOWTv dal 14 dicembre 2021, il quarto ciclo di episodi di Yellowstone riparte dall’adrenalinico finale della terza stagione. Le vite di Beth (Kelly Reilly), Monica (Kelsey Chow Asbille) e Kayce (Luke Grimes) sono in pericolo. Jamie (Wes Bentley) è contro la sua famiglia. La guerra contro i Market Equities di Roarke Morris (Josh Halloway) continua.
Al centro del conflitto un (quasi) moribondo John Dutton (Kevin Costner) e l’indomito Rip (Cole Hauser). Minacciato dai costruttori, da una riserva indiana limitrofa e dalla classe dirigente del territorio, toccherà a loro lottare per mantenere la stabilità della famiglia e del ranch.
Completano il cast Brecken Merrill, Jefferson White, Gil Birmingham, Forrie J. Smith, Denim Richards, Ian Bohen, Ryan Bingham, Jackie Weaver, Jen Landon, e Mo Brings Plenty.
Yellowstone: tra le righe di un excursus della grande tradizione western
Parliamoci chiaro. Quanto fatto da Sheridan con Yellowstone ha letteralmente del miracoloso. Lungo la sua crescita seriale infatti la creatura narrativa (neo) western di Sheridan non è soltanto riuscita a svilupparsi coerentemente: ha cambiato pelle tematica. Più e più volte. Quasi come fosse un organismo avente vita propria. Nel farlo però – ed è qui che sta il miracoloso – Sheridan ha saputo rileggere e rimescolare topos classici e crepuscolari della grande tradizione western. Riuscendo così a realizzare, tra le righe, un solido e affascinante excursus storico dell’evoluzione del sapore e delle atmosfere sceniche di quello che André Bazin soleva definire come “il genere americano per eccellenza“.
Si passa così dalla (più che) classicissima dicotomia cowboy-indiani sullo sfondo di trame e sotto-trame familiari di dinamiche da ranch delle prime due stagioni, alla terza dove invece Yellowstone sfodera una portentosa riflessione proto-nostalgica sul declino del west e l’avvento della civilizzazione. Praticamente il focus narrativo di capolavori come il fordiano L’uomo che uccise Liberty Valance (1962); il leoniano C’era una volta il West (1968); nonché il peckinpahiano Il mucchio selvaggio (1969), qui abilmente riletti da Sheridan in chiave neo-western.
Un’evoluzione narrativa che porta infine alla stabilità: Sheridan, la vendetta dei buoni, il valore della famiglia
E non in un’accezione negativa la parola stabilità. Con i sopracitati capolavori del western moderno di Ford, Leone, e Peckinpah, la terza stagione di Yellowstone ha in comune infatti la rassegnazione all’ineluttabilità del tempo che passa. L’avvento dell’era moderna e della civiltà. Un cambiamento che in una forma (tele)filmica e l’altra sembra porre al centro del conflitto la caduta del cowboy e della benevola carica valoriale da esso perpetuata.
Un discorso che diventa predominante in Yellowstone. Su cui Sheridan fa ruotare non solo il terzo ciclo di episodi scuotendo le fondamenta della maglia narrativa fin lì intessuta, ma anche segnando indelebilmente gli eventi scenici della quarta attraverso una climax violenta e sanguinaria condita di uno strepitoso cliffhanger.
Diventando così un ricominciare-e-ripartire tra incerottate, vendette e nuove consapevolezze familiari nel segno di una totale evoluzione-rivoluzione caratteriale dei suoi interpreti (su tutti il figliol non più prodigo Jamie di un portentoso Bentley e l’indomito e amabile Rip di Hauser) con cui dare certezza, stabilità, e approfondimento ad un’opera fin qui dalla giusta e armonica mutevolezza identitaria infine giunta nel terreno narrativo del consumato revenge-movie dal ritmo ora serrato, ora ragionato e strategico.
È puro e semplice cinema prestato alla televisione Yellowstone. Un autentico capolavoro di scrittura seriale. E assieme a Succession (2018 – in onda) molto probabilmente il meglio che la serialità televisiva vecchio stampo e a scansione settimanale ha da offrire.