I cavalieri del Nord Ovest, secondo capitolo della Trilogia della Cavalleria Nordista di John Ford con John Wayne, John Agar e Joanne Dru

Sul solco de Il massacro di Fort Apache (1948) – con cui inaugurare la trilogia della Cavalleria Nordista –  l’anno successivo è la volta de I cavalieri del Nord Ovest (1949). Opera di mezzo con cui John Ford prosegue nel suo percorso di celebrazioni degli ideali e valori della Cavalleria. Un processo che permette al cineasta de L’uomo che uccise Liberty Valance (1962) di declinare solidi racconti nel pieno dell’accezione baziniana del western come “il cinema americano per eccellenza“; arricchendo di significazione gli agenti scenici come portatori sani di valori “a stelle e strisce” con cui celebrare la Cavalleria – e di riflesso – la cultura americana. Una piega sociale quella intrapresa dal cinema fordiano nel Secondo Dopoguerra, di un John Ford che crede negli ideali del Mito della Frontiera dell’Ottocento americano come panacea per ricostruire un paese – e di riflesso il mondo – all’indomani del conflitto bellico.

Rispetto a Fort Apache infatti, dalla spiccata accezione nichilistica, I cavalieri del Nord Ovest ragiona in un’ottica decisamente più ottimista. Laddove infatti nell’opera precedente Ford poneva il focus su una sconfitta dal sapore custeriano con cui condannare i Thursday della storia e al contempo celebrare e ripartire dai Kirby Yorke, in I cavalieri del Nord Ovest si celebra la serenità degli uomini. Ponendo così l’accento sui valori familiari, il retaggio; su partenze e addii; morti fisiche e rinascite dello spirito; tutti elementi di valore avvolti in atmosfere funzionalmente crepuscolari.

John Wayne in una scena de I cavalieri del Nord Ovest

La lavorazione de I cavalieri del Nord Ovest ha un che di leggendario, non a caso sono giunte a noi cronache che meritano più di qualche parola. Vincitore dell’Oscar alla Miglior fotografia nel 1950, il DoP (direttore della fotografia) Winton Hoch ebbe più di qualche problematica nelle dinamiche con Ford. Una delle scene più iconiche de I cavalieri del Nord Ovest fu realizzata nel bel mezzo di una lite tra DoP e regista. Scoppiò infatti una bufera e se Hoch avrebbe voluto impacchettare le telecamere, Ford era di tutt’altro avviso, ordinandogli di continuare a girare.

A detta del DoP non c’era abbastanza luce naturale per girare in modo opportuno, oltre al fatto che le telecamere rischiavano di diventare pericolosi parafulmini. Ford ignorò le rimostranze di Hoch in modo energico, completando comunque la scena nonostante infuriasse la tempesta. Nell’economia del racconto la scena risultò alla fine cruciale, ed è probabilmente uno dei motivi del successo de I cavalieri del Nord Ovest. Nonostante questo però, Hoch scrisse una vibrante lettera di protesta alla The American Society of Cinematographersdenunciando Ford e i suoi metodi di lavoro spartani.

Nel cast figurano John Wayne, Joanne Dru, John Agar, Harry Carey Jr, Victor McLaglen e George O’Brien; e ancora Ben Johnson, Arthur Shields, Mildred Natwick e Chief John Big Tree.

I cavalieri del Nord Ovest: la sinossi del film di John Ford

All’indomani della disfatta del generale Custer a Little Bighorn, la Cavalleria Nordista si trova a dover fronteggiare l’offensiva degli indiani. Al Forte Starke un presidio nel Nord-Ovest, il Capitano Nathan Brittles (John Wayne) – prossimo alla pensione – è pronto a condurre la sua ultima missione. Il Maggiore Mac Allshard (George O’Brien) gli ordina infatti di ricacciare gli attacchi dei Cheyenne; al contempo scortare moglie (Mildred Natwick); e la nipote Olivia Dandridge (Joanne Dru) alla stazione della Diligenza.

Il giorno della partenza, Olivia indossa un fiocco giallo, a indicarne – secondo l’usanza dell’epoca – il legame sentimentale con qualcuno. Innescando così un’accesa e maliziosa disputa tra due pretendenti: il tenente Cohill (John Agar) e il sottotenente Pennell (Harry Carey Jr).

Una scena de I cavalieri del Nord Ovest

Quella che sembra essere una tranquilla missione, finisce con l’essere invece una pericolosissima traversata: Gli Arapaho intervengono, costringendo Brittles a compiere l’impossibile per portare al sicuro il convoglio. A un giorno dal congedo, Brittles si vedrà costretto a lasciare la Cavalleria. Ma nel suo petto batte un cuore a stelle e strisce risultando comunque decisivo, da semplice civile, nella rappresaglia comanche.

Tra crepuscolo ed epica classica: Nathan Brittles eroe fordiano 

“Il Generale Custer è caduto e con lui intorno all’insanguinato stendardo dell’eroico settimo reggimento di Cavalleria giacciono duecento dodici valorosi. Gli indiani Sioux e Cheyenne sono sul sentiero di guerra. Il telegrafo militare trasmette la notizia del massacro di Custer e dei suoi prodi soldati alle valorose terre del Sud. I cavalli vengono frustrati a sangue affinché l’allarme giunga in tempo alle fattorie minacciate dagli insorti. I pionieri sanno che se non si uniscono tutti in uno sforzo comune ci vorranno anni ed anni, prima che un altro uomo bianco possa tornare a vivere in queste terre ribelli. […] E negli isolati avamposti dovunque verrà issata la bandiera stellata, c’è un uomo, un ufficiale che dovrà sguainare la spada.”

La bandiera del Settimo Reggimento che sventola. Un uomo a cavallo inseguito dagli indiani. Una fila di telegrafi del color dell’alba. La potenza delle carrellate fordiane tra diligenze in corsa disperata e la Cavalleria ad inseguire in campo lungo. Si apre per mezzo di un evento delittuoso I cavalieri del Nord Ovest. Nel sopracitato voice over che permette di alzare sensibilmente la posta in gioco e al contempo presentarci il Nathan Brittles di Wayne tramite dissolvenze incrociate con cui caricare di significato la sua dimensione caratteriale.

In appena un inquadratura infatti, Ford configura appieno l’aura mitica del suo brillante protagonista in una sciabola e foto di famiglia; rendendolo così, inequivocabilmente, portatore sano di fierezza e di valori americani. Ne emerge così, oltre che l’insita capacità del Ford costruttore d’immagini, una dimensione caratteriale epica oltre umana tra battute leggere con il Sgt. Quincannon di McLaglen e gli elementi del contesto scenico militaresco.

John Wayne in una scena de I cavalieri del Nord Ovest

Laddove il Capitano Yorke di Fort Apache era forte, vigoroso e giovane, con I cavalieri del Nord Ovest, il cineasta de Sfida infernale (1946) delinea invece una caratterizzazione opposta a livello anagrafico; forte si e anche imperturbabile, ma prossimo alla pensione. In una chiara connotazione crepuscolare riconducibile più alla dimensione scenica di Brittles, che non al racconto in sé. Un’opera che invece si presenta come solidamente classica e tipicamente fordiana tra i topos e le tematiche trattate.

Il valore della morte secondo John Ford

Sullo sfondo delle Monument Valley si staglia l’ingresso scenico del Tenente Cohill di Agar, e della Dandrige della Dru. mantenendo così il concept alla base de Il massacro di Fort Apache: il delineare, cioè, una componente romantico-vivace come sub-plot sullo sfondo delle atrocità frutto della dicotomia cowboy-indiani. Espediente con cui alleggerire il racconto de I cavalieri del Nord Ovest, tra rifiuti, linguacce e picnic oltre il Forte. Al tramonto di una tromba Nordista e del fumo di pipa, Ford disegna una delle scene iconica del cuore del racconto; oltre che della Trilogia della Cavalleria.

Il rosso lassù, che si staglia in cielo, un cimitero. Brittles si siede su di uno sgabello mentre è intento a dare l’acqua ai fiori sulla tomba di moglie e figlie; raccontando così delle prospettive future, in una pensione tutt’altro che oziosa, ma in una terra assegnata, verso ponente. Attraverso un sagace uso della dissolvenza in un avvicinarsi ancora, da un’altra inclinazione; alzando così la cifra drammatica del racconto attraverso cui declinare, ancora una volta, la speranza nel Mito della Frontiera.

John Wayne in una scena de I cavalieri del Nord Ovest

Nel raccontare di una malinconica ultima missione ai cari defunti, Ford dispiega ancora una volta un suo celebre topos. La morte non è vista nel cinema fordiano come la fine di tutto; bensì un mutamento della condizione d’amore e d’affetto verso i propri cari – e che Ford, abitualmente dispiega in un dialogo intimistico con la persona scomparsa.

Una sequenza similare a quella appena descritta è riconducibile, ad esempio, in Alba di gloria (1939); con l’Abramo Lincoln di Fonda che visita la tomba di una donna che ha amato, morta prematura. O ancora in In nome di Dio (1948), di cui potremmo quasi parlare come di un The Mandalorian (2019 – in onda) ante litteram; il cui concept del racconto ruota tutto intorno a un simulacro d’amore familiare unito, proprio, al tema del viaggio. Non ultimo il sopracitato Sfida infernale, con l’Earp di Fonda che rivede il suo retaggio dinanzi alla tomba del fratello trapassato.

L’autocoscienza di Brittles e il topos del viaggio fordiano

Un nastro giallo; un bacio non ancora dato; una sfilata e le Monument Valley; attraverso lo sviluppo del racconto Ford compenetra del tutto le due componenti narrative. Viziosi corteggiamenti amorosi uniti a un solido respiro western tra bufali, carovane Nordiste e assalti indiani. Avvolte in una regia tra le più delicate della filmografia fordiana: campi lunghi; panoramiche; piani americani con cui far rivivere il mito della Cavalleria. Tutte componenti che nel dispiego dell’intreccio prendono così vita nell’arena scenica delle “deuteragonica” Monument Valley: in un topos del viaggio decisamente atipico la cui evoluzione della carica drammaturgica va di pari passo a una raffinata evoluzione climatica.

Dal cielo limpido e i toni leggeri; alle nuvole; la bufera a toni decisamente più cupi; a cui però Ford cuce addosso una cura del momento sorprendente, tra funerali e bandiere rattoppate. Il topos del viaggio, che nel cinema fordiano va a configurare un’esplicitazione narrativa degli archi di trasformazione in I cavalieri del Nord Ovest funge da presa di coscienza. In un’ultima missione con cui andare e poi ritornare del Brittles di Wayne che è salvaguardia dei valori morali e familiari dinanzi alla criticità selvaggia alla base della dicotomia “di genere”.

John Wayne in una scena de I cavalieri del Nord Ovest

Un’opposizione archetipica tra civiltà e barbarie e di significazione del topos del viaggio, che troveranno rimandi tangibili – dalla carica ancora più propulsiva – nel successivo Sentieri selvaggi (1956). In una componente di senso dell’agente scenico Brittles, che troverà conferme e forza in un Ethan Edwards corroso dall’odio per gli Apaches, ma dal cuore d’oro: al centro, sempre e comunque, il volto di John Wayne.

L’evoluzione narrativa de I cavalieri del Nord Ovest permette a Ford di consolidare la componente crepuscolare morfologico-testuale di Brittles, nella totalità della sua dimensione umana. Emerge così una riflessione sagace e sentimentale sul ruolo dell’ufficiale e dell’etica del lavoro sotto le armi. In una progressiva riduzione del conflitto scenico dalla grandezza della Cavalleria all’intimità delle sorti di Brittles in un’evoluzione del ruolo narrativo da Capitano onorato da tutti che da uomo civile perde l’autorità, ben reso da un’arguta linea dialogica:

È brutta la vecchiaia, un giorno capirete cosa significhi per un soldato. Un giorno sei capitano di uno squadrone e tutti i suoi uomini dipendono da lui; i tenenti tremano quando sbraita. E domani invece sarà felice se il maniscalco si offrirà di ferrargli un cavallo.”

Dovunque hanno combattuto quel luogo è diventato terra degli Stati Uniti

In una climax che risolve i conflitti scenici e ricostruisce, in modo netto, la dimensione caratteriale del Brittles uomo d’armi, I cavalieri del Nord Ovest gioca un po’ in opposizione rispetto alla chiusa di Fort Apache. Laddove il monologo conclusivo dell’opera precedente giocava su come, di fatto, gli uomini passano ma la Cavalleria resta; nell’opera successiva Ford riequilibra un po’ questo giudizio. Ponendo così il focus più che sulla Cavalleria nella sua grandezza, sugli uomini che l’hanno resa grande.

Una calcolata riduzione del focus del racconto con cui Ford mantiene intatte le tematiche e gli intenti celebrativi, ma muta, radicalmente la condizione dei suoi uomini. Un processo che va di pari passo con quanto concerne le dinamiche narrative de I cavalieri del Nord Ovest; concentrandosi così sugli agenti scenici e arricchire di senso, e di valori, la loro dimensione individuale. Con il terzo e ultimo atto della Trilogia – Rio Bravo (1950) – Ford chiuderà gli intenti celebrativi riportandoci nel terreno narrativo di Fort Apache. In un sequel dell’opera del ’48 con cui rigiocare su epica e sentimenti familiari all’ombra della Cavalleria Nordista.