Essere un cowboy: Cry Macho – Ritorno a casa, di e con Clint Eastwood, ed Eduardo Minett, Natalia Traven, Dwight Yoakam, e Fernanda Urrejola

Da Clint Eastwood a… Clint Eastwood. In soldoni è questa l’anima filmica di Cry Macho (2021). Una chiusura del cerchio che è al contempo ritorno alle origini e tornare a casa. Non soltanto però in termini artistici, ma anche produttivi. Perché se è pur vero che Cry Macho (al tempo noto solo come Macho) nasce come sceneggiatura invenduta di N. Richard Nash agli inizi degli anni settanta – per poi essere rielaborata come romanzo (stavolta) di successo nel 1975 – è quasi un decennio dopo che ne sentiamo parlare in termini cinematografici.

I titoli di testa di Cry Macho

Siamo nel 1988 e Eastwood veniva da un periodo parecchio florido. Nemmeno tre anni prima aveva infatti dato vita al western più iconico di quel decennio – Il cavaliere pallido – rielaborazione eastwoodiana del stevensiano Il cavaliere della valle solitaria (1953); dato volto e regia ad un’interessante opera anti-bellica come Gunny (1986); nonché celebrato vita e opere dell’immortale Charlie Parker attraverso un caustico e musicale biopic dal titolo Bird (1988).

La prima volta, il gran rifiuto di Eastwood, e i tanti (troppi) volti mancati di Mike Milo

Albert S. Ruddy della Fox, che di Cry Macho aveva acquistato i diritti di utilizzazione economica da Nash all’indomani del successo del romanzo, propose a Eastwood il ruolo dell’ex campione di rodeo – un po’ alla maniera del precedente (ma nemmeno poi tanto) Bronco Billy (1980) – Mike Milo. Proposta che per quanto valida Eastwood rispedì al mittente. Era già impegnato sul set de Scommessa con la morte (1988). Quarta e ultima (fiacca) parte della tetralogia su Harry Callahan con cui provare a rilanciare il franchise del celebre Ispettore dopo l’altrettanto poco convincente Coraggio…fatti ammazzare (1983).

Si offrì di dirigerlo però, suggerendo Robert Mitchum per la parte. E si, in realtà iniziarono anche le riprese del primo Cry Macho in Messico. Solo che al posto di Mitchum la Fox ingaggiò Roy Scheider. Dopo un paio di settimane di ritardi e contrattempi il progettò si arenò finendo rapidamente nel dimenticatoio. Contemporaneamente Eastwood iniziò la pre-produzione de Gli spietati (1992) allontanandosi sempre più dal suo Macho.

Clint Eastwood in una scena di Cry Macho

A metà degli anni novanta la Fox pensò di riavviare il progetto offrendo però il ruolo di Milo ad uno tra Burt Lancaster e Pierce Brosnan. Ancora nessuna traccia registica di Eastwood al tempo immerso tra I ponti di Madison County (1995) e Potere assoluto (1997). Passati circa dieci anni, nel 2003 Ruddy propose due progetti ad un Arnold Schwarzenegger pura macchina macina-incassi. O un remake di Westworld – Il mondo dei robot (1973), o proprio lui, l’ormai mitologico Cry Macho.

Schwarzy scelse il secondo ma dovette tornare indietro sui suoi passi quasi immediatamente. Era infatti il periodo della sua avventura politica come Governatore della California. Riteneva però Cry Macho il miglior modo per ricominciare con il cinema allo scadere del mandato. Nel 2011 annunciò che vi avrebbe preso parte, per la regia di Brad Furman. Nemmeno due anni dopo, altro dietrofront. Il divorzio con la giornalista Maria Shriver e il relativo scandalo coniugale costrinsero Schwarzy a rinunciarvi.

Cry Macho: un crepuscolare ritorno a casa fatto di sfumature e meta-particolari

Infine il miracolo produttivo. Come in una bella sceneggiatura hollywoodiana quasi cinque anni dopo la Warner Bros si interessa a Cry Macho (qui per leggere la sinossi) annunciandone a sorpresa la realizzazione nell’ottobre 2020. Alla regia proprio il quattro volte Premio Oscar Clint Eastwood che a trentatré anni dal celebre rifiuto ha scelto di metterci anche la faccia come interprete. Qualcosa su cui il diretto interessato si è così espresso:


“Ho sempre pensato che sarei tornato indietro e l’avrei guardato. Era qualcosa in cui dovevo crescere. Un giorno ho sentito che era giunto il momento per rivisitarlo.”

Ecco, l’importanza del momento giusto. Nel 1988 avrebbe anche potuto funzionare Cry Macho. Eccetto che per riletture leggere come Silverado (1985) e il dittico Young Guns/Young Guns II (1988-1990) e proprio Il cavaliere pallido di matrice-Eastwood infatti il western era del tutto uscito di scena tra le priorità dell’industria hollywoodiana. E l’idea di un ex-stella del rodeo – un cowboy da rodeo – che vive secondo il paradigma culturale del cowboy del west riscoprendo sé stesso in un viaggio a cavallo tra Messico e Stati Uniti d’America, sarebbe stata perfetta come saluto di commiato al western; non con Eastwood come interprete però.

Clint Eastwood in una scena di Cry Macho

Perché per chi nel western c’è artisticamente nato tra Gli uomini della prateria/Rawhide (1959-1965) e la Trilogia del dollaro di Sergio Leone (Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono il brutto il cattivo) e a metà degli anni settanta s’è saputo imporre come unico erede registico della tradizione fordiana con Lo straniero senza nome (1973) e Il texano dagli occhi di ghiaccio (1976) serviva qualcosa di ambizioso dalla visione registica grandiosa. Un glorioso kolossal western insomma. Ed ecco infatti Gli spietati. L’ultimo grande western americano. L’unico ultimo atto possibile. Il perfetto saluto di commiato al cinema western a cavallo tra tradizione storica e innovazione nostalgica.

Trent’anni dopo, da ipotetico punto di chiusura del west, la ratio filmica di Cry Macho si arricchisce e amplifica legandosi a doppio filo con la mitologica figura dell’Eastwood-autore. Un racconto intimo dal conflitto scenico ridotto. Caustico e solido nel suo sviluppo on-the-road di un redivivo (ma immortale) topos del viaggio fordiano come esplicitazione dell’arco di trasformazione, ma avvolto di un velo registico nostalgico e romantico.

Clint Eastwood ed Eduardo Minett

Vive infatti di sfumature e meta-particolari Cry Macho. Come i rimandi testuali a Rawhide, le atmosfere del viaggio riecheggianti l’illiceità de Una calibro 20 per lo specialista (1974) di Michael Cimino e l’affettuosità paterna de Un mondo perfetto (1993), nonché l’intero corpus narrativo rievocante il sapore del salvataggio di Sentieri selvaggi (1956) il cui finale, peraltro, viene citato tra le righe della suggestiva climax. Nel mezzo c’è il simbolico valore semantico del cappello. Per certi versi un inside joke a posteriori sulle espressioni di Eastwood secondo Leone che in Cry Macho diventa celebrazione della carica valoriale del cowboy dall’insito sapore crepuscolare.

Ed ecco quindi come il ritorno a casa del sottotitolo italiano è da intendersi non solo come avventuroso nuovo inizio sulle onde di un tragico sogno americano per il giovane Rafo (Eduardo Minett). Anche e soprattutto come un metaforico tornare indietro nel terreno narrativo del cuore per Eastwood come unica soluzione possibile alla caducità della vita e all’inesorabile scorrere del tempo: fermarlo, almeno nella finzione scenica. Vestendosi per sempre dell’unica espressione possibile. Quella cara a Leone e dei giorni di vera gloria degli inizi con gli Spaghetti: quella con il cappello.