Lo chiamavano Trinità… di E.B.Clucher, la deriva comica dello spaghetti-western, con Terence Hill e Bud Spencer

Recentemente passati i cinquant’anni d’età – opportunamente celebrati a Venezia – Lo chiamavano Trinità… (1970) di E.B. Clucher, al secolo Enzo Barboni, arrivò in un momento cruciale nella storia dello spaghetti-western. Il genere rinato con Sergio Leone e la sua trilogia del dollaro de Per un pugno di dollari (1964); Per qualche dollaro in più (1965); Il buono il brutto il cattivo (1966) che ne ridefinì una nuova grammatica filmica, prosperava tra le interpretazione autoriali di registi made-in-italy, volte a dargli nuove e interessanti sfumature di genere.

A partire da Sergio Corbucci – grande amore cinefilo di Quentin Tarantino – con lo spaghetti sporco e marcatamente violento tra Django (1966) e Il grande silenzio (1968); quello epico di carattere politico di Damiano Damiani con Quién Sabe? (1967); nonché di puro spettacolo de La resa dei conti (1966) e Faccia a faccia (1967) di Sergio Sollima; I giorni dell’ira (1967) di Tonino Valerii; e Da uomo a uomo (1967) di Giulio Petroni.

Terence Hill

Ma non solo, la seconda metà gli anni sessanta vide infatti l’emergere della lettura offerta da Giuseppe Colizzi e la sua trilogia western de Dio perdona… io no! (1967); I quattro dell’Ave Maria (1968); La collina degli stivali (1969). Opere magari di secondo piano se paragonate alle sopracitate, ma interessante trampolino di lancio per Terence Hill e Bud Spencer; qui all’esordio con gli pseudonimi anglofoni d’arte dopo “l’abbandono” dei nomi Mario Girotti e Carlo Pedersoli.

In tal senso, la deriva clucheriana dello spaghetti-western offerta da Lo chiamavano Trinità… – e il successivo Continuavano a chiamarlo Trinità (1971) – si inserisce quale rilettura in chiave comica delle estetiche del cinema leoniano; a sua volta, reinterpretazione dinamica del western classico di John Ford e della sua solida organicità.

L’esordio strepitoso di Bud Spencer & Terence Hill, la famigerata sequenza dei fagioli

La pellicola, chiave di volta nella carriera del fortunato duo comico Bud Spencer & Terence Hill, lo divenne un po’ per caso. Nei piani di Clucher infatti, le parti di Trinità e Bambino erano state concepite, rispettivamente, per George Eastman e Peter Martell. Quando seppero però che Clucher stava proponendo il soggetto a svariati produttori, gli stessi Hill e Spencer si proposero come coppia; segnando così l’effettivo inizio del sodalizio dopo la trilogia colizziana in cui agivano “da singoli”.

Bud Spencer e Terence Hill

Girato tra Lazio e Abruzzo; reso leggendario dall’indimenticabile colonna sonora di Franco Micalizzi, poi citata nei titoli di coda di Django Unchained (2012) di Quentin Tarantino; la pellicola di Clucher è passata alla storia per la celebre scena dei fagioli in apertura di racconto. Le cronache dell’epoca raccontano come sia stata girata un’unica volta, e che Terence Hill avesse digiunato per 24 ore; altri dicono 36; altri ancora 48; poca importa, quella era vera fame!

Lo chiamavano Trinità…: la sinossi del film di E.B.Clucher

In un tempo non ben precisato del Far West, il pistolero Trinità (Terence Hill) vaga nel deserto trainato dal suo cavallo. Non sta infatti in sella come un comune cowboy, ma sdraiato su di un travois mentre il cavallo marcia a piccolo trotto. È decisamente pigro Trinità, ma affabile e dal cuore d’oro. Nonostante il suo aspetto dimesso – praticamente vestito di stracci – la sua fama lo precede. Per via della velocità con cui spara viene chiamato: La mano destra di dio.

Giunto in un paese semi-abbandonato, incontra suo fratello, Bambino (Bud Spencer), un ladro di cavalli dalla forza sovrumana divenuto sceriffo senza apparente motivo. Qui, scoprirà che Bambino è alle prese con le magagne del latifondista locale: il Maggiore Harriman (Farley Granger). Spietato uomo d’affari senza scrupoli che sta cercando in tutti i modi di impadronirsi delle terre, e del bestiame, di una comunità di mormoni; guidati dal pacifico Tobia (Dan Sturkie). Trinità e Bambino, nonostante qualche ruggine di troppo, uniranno le forze per riportare la tranquillità nella vallata a suon di pistole e cazzotti.

I titoli di testa de Lo chiamavano Trinità

Rileggere le tipicità dello spaghetti-western e non solo

Se è vero che già gli spaghetti-western di Sergio Leone rileggevano i topos del genere reso grande, fra tutti, da John Ford, il lavoro compiuto da Clucher va ben oltre. L’intera narrazione de Lo chiamavano Trinità… infatti, è da intendersi come una rilettura dalla duplice valenza filmica: dissacrante verso le estetiche leoniane; “sovversiva” se rapportate al western classico fordiano. Laddove infatti il cinema di Leone verteva verso una rilettura della compostezza del western classico, rimescolando le carte valoriali degli agenti scenici per mezzo di “zone d’ombra”; aggiungendo dinamismo registico e di montaggio con cui conferire un respiro più action; Clucher va oltre, riducendo il dinamismo registico a favore di una componente umoristica marcata, demitizzando così l’epica in ogni sua sfumatura tra passato e presente filmico.

Intenti che possiamo riscontrare già dall’apertura di racconto. L’arrivo di Trinità al villaggio di Bambino rappresenta infatti, a livello strutturale, uno dei più tipici topos del cinema western: l’arrivo dell’eroe a cavallo in un villaggio sperduto. Un incipit che trova evidenti rimandi, per atmosfere e composizione d’immagine, nei sopracitati Per un pugno di dollari e Django, sino a Yojimbo/La sfida del Samurai (1961); peraltro direttamente ricollegati tra loro, tra omaggi, plagi e cause legali.

Terence Hill in una scena de Lo chiamavano Trinità

Entra qui in gioco la mano di Clucher che rilegge la tipicità in modo del tutto inedito: dettagli della pistola strascinata lungo il terreno; degli stivali; l’eroe dormiente trascinato e scalzo che non appena sveglio si veste. Una demitizzazione morfologica e caratteriale dell’agente scenico-cowboy tra vestiti stracciati, padella di fagioli e scarpetta con cui Clucher porta a compimento, anche qui, la rilettura leoniana in chiave decisamente più aggressiva e comica.

Proprio come Leone, Clucher si muove nella tipica zona d’ombra caratteriale degli agenti scenici dello spaghetti-western: cacciatori di taglie dotati d’anima; banditi dal cuore d’oro. Trinità non è infatti l’eroe propriamente detto, piuttosto un ladruncolo astuto che sfrutta il suo talento con la pistola per scopi benevoli; Bambino va invece a rileggere la tipicità caratteriale dello sceriffo western, reso “sporco”; sbuffante; che preferisce gli sganassoni alle pistole.

La narrazione di E.B.Clucher: incontro tra tradizione e innovazione

Eppure nonostante la sovversiva e dissacrante apertura di racconto, lo sviluppo della narrazione de Lo chiamavano Trinità… è tutt’altro che atipico. Decisamente più classico nel dispiego dell’intreccio: nel riproporre il topos del mandriano e della carovana in forma quasi da western consumato; nella rottura dell’equilibrio narrativo dall’arrivo di Trinità nel villaggio; perfino negli eventi in preparazione di una climax che, nell’armare i mormoni in vista del final-showdown, rievoca un po’ le atmosfere di difesa dei contadini messicani de I magnifici sette (1960), e di riflesso, di quelli nipponici de I sette samurai (1954).

Riconducendosi così, a doppio filo, al modo in cui Clucher declina una dicotomia bene/male che nonostante la zona grigia caratteriale di Trinità e Bambino vive di una forte tipizzazione eroi/villain tra il Maggiore Harriman di Granger, rilettura aggiornata del Ramon di Volonté di Per un pugno di dollari ma con molto più charme, e dal Mezcal di Capitani; rievocante anch’esso, nelle movenze e nello spirito, un personaggio tipicamente leoniano: il Nino di Brega ne Per qualche dollaro in più.

Bud Spencer e Terence Hill in una scena de Lo chiamavano Trinità

L’innovazione di Clucher però, nonostante lo sviluppo di una struttura narrativa classica, vive nel tono del racconto. Nei siparietti comici tra Spencer e Hill da cui trasuda l’insita alchimia alla base del rapporto o ne Mi esposa stava al fiume, a lavar; un gringo l’aggredì, la voleva; sequenza che tra maniche stracciate, cuciture e messicani perennemente ubriachi, rappresenta un po’ l’ilare simulacro della narrazione.

Il sapiente lavoro di rilettura del tono dello spaghetti-western operato da Clucher trova però il suo rimando più rilevante – e distinguibile – nell’espediente alla base dei turning point e della stessa climax. Laddove il cinema leoniano vede sviluppare il racconto e risolvere il conflitto scenico tramite sparatorie dalla costruzione d’immagine, e registica, meticolosa, in Clucher avviene qualcosa di diverso. Alle pistole, il regista de E poi lo chiamarono il Magnifico (1972) preferisce le scazzottate; marchio di fabbrica del duo Spencer-Hill che danno al racconto vivacità e un ritmo decisamente inedito per il genere.

Lo chiamavano Trinità: il lascito di un’anomalia di genere divenuta essa stessa genere

Il convincente sequel del 1971 sempre con la coppia Bud Spencer & Terence Hill, e quello improponibile tedesco dal titolo Trinità & Bambino… e adesso tocca a noi (1995); diretto sempre da E.B. Clucher. L’influenza sul genere e l’evoluzione dell’impatto avuto dalla narrazione di Lo chiamavano Trinità… sono fonte di una riflessione approfondita. L’anima giocosa e vitale dello spaghetti-western, quella delle scazzottate e degli sporchi e sgraziati siparietti comici da slapstick-comedy, se per l’epoca poteva risultare un’anomalia di genere, con il tempo ha acquisito sempre maggior peso nelle dinamiche; proprio come lo stesso genere di riferimento.

Quello spaghetti-western nato come anomalia perfino parodistica del composto e sacro western classico, saputosi poi imporre grazie alla grammatica filmica leoniana e le innovazioni offerte dai vari Corbucci, Sollima, Damiani, Valerii ecc. Infine l’accettazione con quel Il mio nome è Nessuno (1973) diretto da Tonino Valerii e prodotto da Sergio Leone, che nell’avvicendarsi tra Nessuno e Beauregard/Terence Hill ed Henry Fonda vede il definitivo punto d’incontro tra il dinamismo registico leoniano e la giocosità dissacrante di Trinità.