Da Miami ad Iron Lake: Dexter: New Blood, il vero gran finale della serie originale, con Michael C. Hall e Jennifer Carpenter

Prima dell’avvento di Netflix e Sky, non era semplice seguire Dexter (2006-2013) con costanza. I meno giovani se lo ricorderanno. Lo trasmetteva Italia1. In un’orrenda seconda serata quasi alle pendici della terza. Del resto infatti, considerando l’audience dell’epoca, gli sviluppi delle indagini sul famigerato Killer del Camion Frigo o di Trinity non potevano che essere collocati lì nel palinsesto.

Ma per i giovani serialminder – gli affamati di serialità televisiva insomma – quella di Dexter era una sfida affascinante. Fece scalpore all’epoca. Perché una serie come Dexter, dal concept efficace sulla carta ma – inevitabilmente – di difficile resa se non stimolate le giuste corde narrative, non poteva lasciare indifferenti.

Michael C. Hall nei titoli di testa "storici"

Pensateci. Un ematologo forense della polizia di Miami che, segretamente, è anche uno spietato serial killer. Ma non un serial killer qualunque: un serial killer di criminali. Una fredda macchina assassina che a sua volta uccide perché spinto da un bisogno di morte (che in Dexter è soprannominato l’oscuro passeggero) frutto di un trauma infantile: aver visto la madre (informatrice) fatta a pezzi da un mafioso con una motosega per via di un conto in sospeso (di droga).

Caratterizzare Dexter Morgan: l’Effetto Thanos

Espediente quest’ultimo con cui dare una nota di colore caratteriale non indifferente. Oggi lo chiameremmo Effetto Thanos. Creare, cioè, l’empatia, con un personaggio le cui azioni normalmente non si faticherebbe a definire mostruose. Un crime quindi di suo innovativo perché raccontato dal punto di vista marginale di un tecnico della scena del crimine dalla doppia vita. Quel mondo straordinario della giustizia privata e vigilantistica che, nello sviluppo del conflitto seriale, va ad intersecarsi sempre di più con il mondo ordinario della giustizia legale.

Nel mezzo c’è Dex per cui, in realtà, l’inerzia tra i due mondi è totalmente ribaltata e invertita. Come spesso ci ricorda la sua spesso dissacrante e ironica voce-pensiero infatti, ciò che per lo spettatore rappresenta l’ordinario, per il folle protagonista è lo straordinario. Dex è prima di tutto un serial killer di criminali, poi un ematologo (ed essere umano).

Michael C. Hall in una scena di Dexter: New Blood

Un’inerzia che dà allo spettatore una preziosa chiave di volta per la comprensione della narrazione. Il sottile filo di lana tra il soddisfare il bisogno dato dall’oscuro passeggero, e il non farsi scoprire dai colleghi. Non lesina mai in depistaggi Dex. Arrivando perfino a sabotare indagini in corso pur di arrivare per primo a far valere la legge privata del suo Codice.

Altro particolare non indifferente e di sicuro appeal per l’audience dell’epoca era la scelta del volto scenico di Dexter. Quel Michael C. Hall che svestiti i panni del David Fisher di Six Feet Under (2001-2005) si reinventò killer caratterialmente colorato; o per dirla con le sue parole:


Non è un serial killer classico. Ha l’ossessione di uccidere chi merita di essere ucciso. Ha un codice (il Codice di Harry nDr): solo chi ha fatto del male può morire. Questo porta il pubblico normale ad affezionarsi a un personaggio simile
“.

L’andamento seriale di Dexter: non tutte le stagioni riescono col buco

Solo che, proprio per la peculiarità del suo racconto, non tutte le stagioni di Dexter sono riuscite col buco. Tratto da una serie di romanzi di Jeff Lindsay di cui il primo – La mano sinistra di Dio (2004) – ampiamente rimaneggiato. I puristi aka i dexteriani di ferro, son dell’avviso che il vero finale di Dexter sia quello della stagione 4. Dex che riesce ad avere la meglio su Trinity (un John Lithgow in formato DePalmiano alla maniera de Doppia personalità). L’allievo che supera il maestro. Il giovane Codice che prevale su di una mitologica psicosi omicida trentennale. Solo che nel coronamento dell’obiettivo Dex perde la neo-sposa Rita (Julie Benz) per mano proprio di Trinity.

Michael C. Hall

Giunge quasi al definitivo collasso il delicato (e malsano) equilibrio tra le due vite parallele di Dex: una – quella ordinaria e psicopaticavince e si afferma, l’altra – quella straordinaria e familiareperde, su tutta la linea; senz’altro uno dei turning point del suo sviluppo seriale.

Di lì in avanti infatti Dexter si arrovellerà in una graduale discesa che – tra stagione 5 e 6 con la revenge-story di Lumen (Julia Stiles) e il Killer dell’Apocalisse (Colin Hanks) – andrà a perdere progressivamente mordente ed intensità. Il nuovo turning point in positivo arriva con il finale di stagione 6: la rivelazione del suo io/killer alla sorella adottiva Debra (Jennifer Carpenter); anch’essa poliziotta, fresca di nomina al grado di Tenente. Dexter evolve ancora e il confine tra le due vite diventa sempre più rarefatto, finendo con il definitivamente compenetrarsi tra stagione 7 e 8.

Ricorda i mostri: il series finale più chiacchierato del decennio

Ed ecco il nocciolo della questione. Prima de Il trono di spade (2011-2019) e dell’approssimativa e schizofrenica evoluzione caratteriale di Daenerys da Regina benevola a sanguinaria nelle ultime sei puntate della stagione 8, era il series finale (la 8×12, Ricorda i mostri) di Dexter quello più chiacchierato (in negativo).

Nella puntata finale Debra viene ridotta in fin di vita dopo uno scontro a fuoco con Oliver Saxon/Il Neurochirurgo (Darri Ingolfsson). Dex, prossimo alla fuga in Argentina con Hannah (Yvonne Strahovski) e il piccolo Harrison (Jadon Wells), ritorna sui suoi passi: prima, vendicando la sorella uccidendo Il Neurochirurgo in un interrogatorio-farsa sotto gli occhi attoniti di Batista (David Zayas) e Quinn (Desmond Harrington); poi, staccando la spina a Debra gettando il corpo in mare alla maniera del suo modus; infine fingendo la sua morte scegliendo la via dell’auto-esilio in Oregon.

Michael C. Hall e Jennifer Carpenter

Lo stesso Hall si dissociò, anni dopo, dal curioso finale, dichiarando come:


Penso che il finale sia stato mistificante nel migliore dei casi, e sconcertante, esasperante, e frustrante nei peggiori
“.

La valenza del crimine/non-crimine perfetto, l’auto-esilio di Dex: punizione necessità?

In realtà c’è una certa nota poetica tra le fila di una climax insolita e inaspettata. Per otto stagioni infatti Dex ha camminato sul filo di lana tra la sua vita da giustiziere empatico (per lo spettatore) e il rischio d’essere scoperto dai colleghi. Quando le circostanze gli hanno imposto di chiudere gli occhi e superare quel confine – svelando alla comunità il suo vero volto – trova nel movente una giustificazione emotiva e di cuore. Era di Debra che si parlava. L’anima del Dipartimento che tutti hanno visto crescere da giovane recluta sboccata a maturo Tenente (ancora più) sboccato. È questa la variabile che determina l’impunità e – di riflesso – la sopraffazione della giustizia privata su quella legale.

Un qualunque altro omicidio compiuto a sangue freddo con la vittima pugnalata con una matita alla base della carotide avrebbe inevitabilmente comportato conseguenze legali. Il contesto della fattispecie-Saxon/omicida dall’animo malato e animalesco, nonché il movente legato al legame affettivo-parentale con Debra, permettono a Dex di compiere il perfetto crimine/non-crimine. Un crimine nella sostanza ma non nella forma. Un atto inequivocabilmente brutale che però, nel trovare supporto e favore della comunità di riferimento (che arriva perfino a invidiarne la paternità), finisce con il non essere considerato come tale.

Michael C. Hall nella puntata finale di Dexter

L’auto-esilio, in tal senso, come unica soluzione possibile. Ma non in quanto punizione che Dex si auto-infligge per i crimini di cui la giustizia non gli hai mai presentato il conto. Piuttosto da leggersi come un atto necessario per preservare la vita di chi è rimasto. Di Harrison ed Hannah, ma anche di Astor (Christina Robinson) e Cody (Daniel Goldman/Preston Bailey). Distanziarsi, cioè, da tutto ciò che si ama e che può soffrire. Solo Dex ha spalle abbastanza larghe per sopportare il fardello – e le conseguenze – dell’agire dell’oscuro passeggero.

Dexter: New Blood: è morto Dexter, lunga vita a Dexter!

Dieci anni dopo ecco Dexter: New Blood (2021). Pregiatissima creatura narrativa ideata da Clyde Phillips (in onda su Sky Atlantic dal 10 novembre 2021 e in streaming su NOW). Presentataci come uno spin-off (mini)seriale in discontinuità con l’originale ma che in realtà è esattamente quella nona stagione che tutti i fan, in cuor loro, speravano che un giorno sarebbe arrivata. Dall’Oregon alla fittizia Iron Lake, l’auto-esilio silenzioso fatto di ciambelle e basso profilo di Dexter viene interrotto da un ospite dal passato: il figlio Harrison (Jack Alcott) ormai adolescente, in cerca di sé e del proprio retaggio paterno; e se la mela non cade lontano dall’albero…

Certo è facile parlare a posteriori, ma viene quasi da pensare che la scelta di impostare così il series finale di Dexter non fosse stata una mossa del tutto casuale da parte di Showtime (American Rust, Penny Dreadful: City of Angels). Un auto-esilio che – visto il repentino calo degli ascolti – suona tanto backdoor produttiva. Un finale volutamente aperto e in fuga (velatamente) dalle responsabilità che sarebbe potuto diventare un’opportunità narrativa impareggiabile se colta al momento giusto. E in fondo è esattamente questo Dexter: New Blood: un’esperienza narrativa di totale rivalorizzazione del percorso originale che arriva nel momento più nostalgico possibile dell’industria televisiva.

Michael C. Hall e Jennifer Carpenter in una scena di Dexter: New Blood

Per farlo però era necessario uccidere (non letteralmente) il vecchio Dexter e cambiar pelle. La bellezza di Dexter: New Blood sta proprio nella malleabilità con cui Phillips riparte dalle otto stagioni precedenti per darvi nuova vita. Da Miami ad Oregon sino ad Iron Lake – in un formidabile bricolage narrativo – Dexter dismette i panni di ematologo forense e con essi quelli del classico crime di città per diventare commesso di un negozio di caccia in una cornice da small-town-mistery alla maniera di Twin Peaks (1990-1991/2017).

Di riflesso muta in maniera inevitabile e fisiologia anche la caratterizzazione del suo anti-eroe protagonista. Da scrupolosa e pulita macchina ammazzacattivi seriale infatti, Dex si arrugginisce, perde colpi, lascia tracce microscopiche; quasi come a segnarne il crepuscolo di un ultimo, e inaspettato (e nemmeno voluto), colpo di coda omicida. Non ultimo fattezze e funzione dell’oscuro passeggero che – pur sempre mosso da dolore e senso di colpa – dopo 8 anni dell’aiutante e paterno Harry (James Remar) vede così assumere i connotati della ben più provocatoria e violenta (e narrativamente funzionale) Debra.

Numeri e concept alla mano, per ritmo, linguaggio filmico, e costruzione d’immagine, funziona molto di più Dexter: New Blood dell’originale Dexter. Ironia della sorte vuole però non solo che senza Dexter non può necessariamente esserci New Blood, ma anche che l’originale non avrebbe mai funzionato se nel lontano 2006 avesse aperto i battenti come caustico e gelato small-town-mistery anziché rilettura del classico crime sotto il sole di Miami. Insomma il Dexter giusto per ogni generazione di spettatori: un serial a corrente alterna ma a conti fatti solido e appassionante, e una (mini)serie-revival realizzata a regola d’arte.