Abbiamo intervistato l’attore Francesco Vallelonga, uno dei protagonisti dell’atteso cortometraggio horror “Kami No Virusu” di Luciano Attinà. Ecco cosa ci ha raccontato!

Buongiorno Francesco, prima di tutto mi piacerebbe poter parlare con te del grande amore per il ballo e per la danza.

Buongiorno Massimo, è curioso, ma l’amore per la danza, nel mio caso, nasce anche da un incidente. Avevo subito un trauma al ginocchio durante una lezione all’ISEF, che mi costrinse a un anno di riabilitazione per poter tornare quasi a posto. Il calcio e il basket, le mie grandi passioni del tempo, erano fuori questione, per cui ho dovuto rinunciarvi. Guardai quindi alla danza come a una forma di ricondizionamento atletico, nella quale non avrei corso il rischio del contatto diretto con l’avversario, insito nei giochi di squadra. Detto ciò, forse per retaggi tipici della cultura cattolica da cui da sempre cerco di affrancarmi, da piccolo non riuscivo a sentirmi a mio agio nel ballare, nonostante fossi un fan di “Fame” e di Leroy Johnson. Amavo la musica, il rock soprattutto, ma non la sapevo ancora trasdurre in movimenti liberi.

A due anni circa dall’incidente al ginocchio, stavo molto meglio, e chiacchierando con una mia amica ballerina, saltò fuori il nome di questo coreografo di grande talento, Baby Show. Due giorni dopo mi iscrissi al suo corso da Isadora, scuola di danza bolognese. Baby Show nelle sue lezioni metteva insieme danza, Jazz, funky e uno stile di kung fu della Martinica, sua terra di origine. Ho seguito le sue magiche lezioni per quasi due anni. Già il riscaldamento era ipnotico. Quel corso sarà per sempre dentro di me, catartico. In seguito scoprì anche che Baby Show era un amico di Gene Anthony Ray, proprio l’attore che interpretava il Leroy di “Fame”, che ha vissuto a  Bologna, e proprio in quel periodo lo vidi esibirsi in una piazza della città!

Sei stato, ad inizio anni 2000, cubista per alcune notissime discoteche italiane. Ci puoi raccontare qualcosa?

Dopo un anno e mezzo di lezioni e due saggi con Baby Show, un martedì di giugno Baby mi disse che un locale di lap dance a Riccione cercava un ballerino nei weekend, e che io potevo essere adatto. Buon cachet, accettai il primo ingaggio per il Blue Skin di Riccione. Avevo sostenuto Ginnastica artistica all’ISEF pochi mesi prima e avevo dato esami pratici, come “il cavallo con maniglie”, che sviluppavano e allenavano capacità motorie che con un po’ di mestiere si sarebbero potute trasferire su un palo.

Proprio quel venerdì alle 14, a Bologna al “Teatro delle celebrazioni” c’era il provino per entrare nel corpo di ballo dei California Dream Men. Pensai che quello fosse l’unico provino professionale di danza dove avrei avuto qualche chance, quindi lo feci e vinsi la semifinale a Bologna. Poi passai la finale al teatro “Smeraldo” di Milano, infine ci fu la finalissima a Los Angeles. Qui mi fermai, ma ebbi almeno l’opportunità di esibirmi davanti a Carla e Melissa, coreografe di Prince e Madonna. Racconto di questi provini perché durante la mia performance a Milano mi capitò un’esperienza inaspettata, che ha a che fare col mio rapporto con la danza. Avevo letto anni prima su uno dei più noti tomi di Stanislavskij una cosa che mi lasciò titubante. Stanislavskij scrive che il momento artistico più alto di un attore è quando, mentre è in scena, cade in uno stato di trance che lo porta a non ricordare niente della sua performance, una volta rientrato dietro le quinte. Questa amnesia può durare per alcuni minuti. Quando lessi ciò, sinceramente la trovai una cosa improbabile, ma vi giuro che questa cosa a me è successa davvero al teatro “Smeraldo”! Poi nel tempo ho lavorato in altre discoteche di Bologna, Parma, Milano e in Riviera.  

Hai lavorato per due importanti marchi, Algida e Sky, in due spot televisivi. Ti va di parlarne? 

Un’agenzia di Milano, Marelli Attori, agli inizi del secolo, mi segnalò un casting per una serie di spot ad alto budget per “Algida”, girati dal regista Shepar Kapur:“I 7 peccati capitali”. Feci il provino e mi scelsero. L’episodio che girai si chiamava “Avarizia”. Dovevo impersonare una statua dorata in una storia simile a quella di Re Mida. Ricordo un set molto professionale, con uno staff nutrito. Mentre si girava un altro episodio in cui il compito della protagonista era quello di dover buttare a terra con forza tutte le pietanze che erano su una tavola ben imbandita, il regista fece ripetere la scena all’attrice almeno 20 volte, correggendola e guidandola, però, sempre con cortesia e pazienza. Shepar Kapur era un tipo gentilissimo e molto gradevole. Il risultato finale fu secondo me di alto livello, scenografie costumi e fotografia soprattutto. Per quanto riguarda Sky invece, lavoravo come stuart per il colosso dell’entertainment in un acquapark in Liguria e fui scelto per affiancare Luca Argentero in un loro spot.

Come hai fatto ad avvicinarti alla recitazione e perché?

Ha sempre a che fare col mio già citato infortunio al ginocchio. Ero abituato ad esprimermi col movimento, studiavo   all’ISEF, a quei tempi, pallavolo, basket, ginnastica ritmica etc. Di colpo per via di questo trauma non potevo più praticare  sport, a parte il nuoto e le attività da palestra. Andai un po’ in depressione e forse ebbi anche una crisi d’identità. Quindi prima che alla  danza pensai al teatro sia come a un nuovo tipo di espressione corporea che in quel momento potevo sostenere fisicamente, che come  a una forma di psicoterapia. A dirla tutta il pallino per la recitazione e l’amore per il teatro  e il cinema li avevo sempre avuti. Per farla breve, quell’anno frequentai due corsi di recitazione di Marina Pitta, presso ”Accademia 96”. Li trovai molto interessanti e formativi. Marina non è solo una grande attrice ma anche un’ottima insegnante e, umanamente, una bella persona.

Nel 1995 hai partecipato a “Davvero”, un programma tv precursore del “Grande Fratello”. Siamo molto curiosi del tuo racconto…

Ero giovanissimo, stavo cercando di contattare, senza successo, da una cabina telefonica (preistoria) i miei, ora, protoamici. Notai, attaccato al muro di fronte, un foglio bianco con su scritto “Cerchiamo ragazzi fra i 18 e i 25 anni per un nuovo programma televisivo”. Provai a chiamare per gioco, fissai un provino che poi sembrò una seduta psicoattitudinale, lo superai e dovetti sostenere altri tre provini. Dopo alcuni mesi mi ritrovai in una casa simile a quella del futuro “Grande Fratello” (che vide la luce solo qualche anno dopo). Si trattava del primo vero real tv girato in Italia, “Davvero”. Era un format di MTV “The Real World”, che la Palomar aveva comprato per produrre la versione italiana e distribuirla prima attraverso Rai 2 poi attraverso Rai 3, in collaborazione con Giovanni Minoli.

La casa, come dicevo, era identica a quella del Big One, confessionale, cucina uguale, etc. Noi otto ragazzi del cast però eravamo del tutto liberi, potevamo guardare la tv, leggere i giornali, parlare di politica, e uscire di casa quando volevamo. Eravamo muniti di un teledrin per essere sempre intercettabili e raggiungibili dalla troupe, anche all’esterno della casa. Inoltre ritengo importante sottolineare che noi, a differenza del cast del successivo “Grande Fratello”, non eravamo concorrenti di un gioco. Non c’erano votazioni o eliminazioni, o cose del genere. “Davvero” fu interessante soprattutto per gli esterni che documentavano anche le storie di strada di Bologna, quello che succedeva in quegli anni nei locali, nei centri sociali… Ad esempio in una puntata si può seguire Angela, una protagonista del programma, durante una serata passata con i 99 Posse, di cui era amica, dentro il Link, mitico centro sociale negli anni novanta. Dal punto di vista personale/sociale, è stato interessante scoprire, che l’uomo si abitua veramente a tutto. All’inizio la telecamera ti inibisce, ma se poi ce l’hai puntata h24 addosso, dopo qualche giorno effettivamente è come se non esistesse più…

Francesco Vallelonga

Non solo: nel 2002 partecipi ad un altro real tv, “Blind Date”. Che ruolo avevi in quell’occasione?

Stavo tornando a casa di notte e in una via del centro universitario mi si appiccica un foglio bianco al piede. Lo scotch mi perseguitava, calciavo via quel foglio ma non si voleva staccare, perciò lo staccai con le mani e mentre i miei blasfemi improperi riecheggiavano sonoramente in quel portico, lessi “Cerchiamo dei ragazzi per un programma televisivo”. La situazione era quasi identica a quella che mi aveva portato a girare “Davvero”! In più su questo foglio era anche rimasta l’impronta del mio anfibio… Interpretai tutto ciò come un segno che dovevo cogliere. Chiamai, feci il provino e mi presero. Girai un episodio a Roma per “La 7”, il mese successivo. Il format consisteva in un appuntamento al buio con una ragazza con la quale passare tutta la giornata. Di questa esperienza posso dire che le dinamiche produttive e professionali del programma si rivelarono fin troppo simili a quelle che qualche anno dopo la serie Boris avrebbe raccontato con grande ironia: incompetenza, strumentalizzazioni nel montaggio e una direzione del cast assurda da parte della regista.  Boris non è parodia, è neorealismo edulcorato.

Ma parliamo ora di cinema, come è giusto che sia: quando, come e con quali film nasce la tua passione per la Settima Arte?

Fin da piccolo guardavo molto cinema in tv. I film di Jerry Lewis, Totò e Tognazzi mi divertivano parecchio. Ero innamorato di Marilyn, ammiravo Bruce Lee e gli horror mi eccitavano. Il film che mi ha fatto appassionare al cinema fu “C’era una volta in America” di Sergio Leone, visto in tv.  “L’ultima tentazione di Cristo” di Scorsese fu invece il primo film che mi sconvolse positivamente al cinema. Avevo 13/14 anni quando lo andai a vedere. Film rivoluzionario per i tempi. Avevo visto al TG che in USA dei cattolici estremisti cercavano di sabotare il film, impedendo alla gente di entrare nelle sale o comunque facendo loro dell’ostruzionismo. Non potevo non andare a vedere quel film al cinema…

Francesco Vallelonga
(foto di Michela Calzoni)

La tua partecipazione come attore si circoscrive, per ora, alle opere del regista catanese, Luciano Attinà. Come nasce la vostra collaborazione? Che ruolo hai nel corto “Il ritorno del fantasma rosso”, che è ancora in post-produzione?

La mia collaborazione con Luciano nasce innanzitutto grazie alla sincera amicizia che ci lega. Inoltre condividiamo parecchie idee e passioni. Siamo entrambi vegani, amiamo le arti marziali e il cinema. Era insomma inevitabile che girassimo qualcosa insieme. “Il ritorno del fantasma rosso” è stata la nostra prima collaborazione, ma a causa di una serie di malaugurati eventi è ancora in post-produzione. Stiamo però ragionando su come concluderlo. Il corto è un omaggio, una riscrittura e, a seconda di come si interpreta il lavoro di Frank Miller, un capovolgimento ideologico di una specifica scena de “Il ritorno del Cavaliere Oscuro”, l’opera di Miller che ha rilanciato i fumetti di supereroi negli anni ottanta. Io interpreto “il Fantasma Rosso“.

Recentemente hai avuto un ruolo importante nell’attesissimo cortometraggio horror “Kami No Virusu”, di Luciano Attinà. Cosa ci puoi raccontare a riguardo?

Quando lessi per la prima volta la sceneggiatura di “Kami No Virusu” compresi immediatamente il suo incredibile potenziale. Alla fine della lettura ero entusiasta. Una storia scritta benissimo da Luciano, che ha usato diversi stili di linguaggio, intriso il racconto di significati sociali, con atmosfere un po’ cyberpunk, un po’ Nouvelle Vague e dai risvolti horror… Tanta roba insomma…

Montare la parte e connotare il personaggio col regista è stato uno step per me essenziale. Luciano mi ha guidato magistralmente, con fiducia e pazienza, verso il risultato che, spero, potrete presto apprezzare sullo schermo. Alla fine siamo rimasti entrambi pienamente soddisfatti del risultato raggiunto, tanto che stiamo già ragionando su nuovi personaggi per futuri cortometraggi. Devo ringraziare, per il mio lavoro sul personaggio, anche Michela Calzoni, che peraltro partecipa al corto come voce fuori campo. Michela è stata preziosa per indirizzarmi verso una dizione e una fonetica corrette e funzionali al personaggio.

Per quanto riguarda l’esperienza sul set di Kami posso dire che tutte le persone coinvolte si sono rivelate degli ottimi artisti, oltre che delle persone estremamente interessanti da un punto di vista umano. Inoltre mi ha colpito molto il clima onirico e surreale che si era venuto a formare. Probabilmente quando prepari e giri un film di questo tipo, diventa tutto necessariamente surreale, anche la tua vita in quel momento. Non siamo forse anche il frutto o la somma delle nostre esperienze che il nostro cervello di continuo elabora?

Francesco Vallelonga

Quali sono I tuoi film e generi cinematografici preferiti?

Non ho proprio un genere preferito, piuttosto mi interessa quello che un autore ha da dire. Mi piace la filmografia di Kubrick, ad esempio, che ha affrontato egregiamente vari generi. Se ti devo dire alcuni dei miei film preferiti, direi “Quarto potere” di Wells, “Tempi Moderni” di Chaplin, “Il Grande Lebowsky” dei fratelli Coen, “Brazil” di Gilliam”, “ Blade Runner” di Scott,  “Una pura formalità” di  Tornatore,   “Il corvo” di Proyas  e il Premio Oscar “Green Book” di Farrelly, che racconta le vicende di Frank Anthony Vallelonga, probabilmente un mio lontano parente.

CineAvatar è un sito letto da molti appassionati di cinema horror. Ti piace il genere? Se si, quali sono gli horror che ami?

Ho amato moltissimo il genere, da bambino e in età adolescenziale. Poi quando mi sono accorto di essere ateo, ho dovuto mettere in discussione tutto l’impianto concettuale che impregnava molti film di vampiri e di possessione diabolica, dove il crocifisso veniva brandito un po’ come l’alabarda spaziale di Goldrake o la spada laser di Luke… Non potevo esser ateo e anticlericale e credere nel contempo a film il cui mostro veniva sconfitto da un prete… Questa riflessione mi mise a un certo punto in crisi.

I primi frame terrificanti di un horror, nella mia memoria, sono le centinaia di topi sul ponte del battello nel “Nosferatu” di Murnau. Avrò avuto 10 anni e pensai che quei topi fossero veri anche se erano in un film. Credo che l’inconscio elaborò per analogia che anche “Nosferatu”, benché contenuto in un film, potesse esser vero… Risultato finale? Ho la fobia dei topi e dei preti! Anche il “Nosferatu” di Herzog mi terrificò. Ritengo i due “Nosferatu” i film sui vampiri più riusciti in assoluto.  

“L’esorcista” visto a 10/11 anni non mi fece dormire sereno per mesi. Bello anche “Baby killer.” Poi ci fu la saga di “ Nightmare” , ma li già era più il  gusto di vedere un horror raccontato e girato bene, che l’effettiva adrenalina prodotta dalla pura paura. Ricordo però che alcune scene dei capitoli diretti da Craven sono davvero da brividi.

Anche i film di Dario Argento hanno avuto una parte fondamentale nel forgiare i miei gusti in ambito horror. Adoro “Suspiria” e “Inferno”. Ritengo poi il finale di “4 mosche di velluto grigio” veramente geniale! Dulcis in fundo, menzione speciale per il maestro Mario Bava, grandissimo regista che però ho conosciuto tardi  e che è riuscito a spaventarmi  con un pupazzo anche in età adulta.

Ti piace leggere? Quali sono i tuoi libri preferiti?

Sì, mi piace la lettura. Ho apprezzato molto le poesie di Rimbaud, “Paradisi artificiali” di Baudelaire, quante amare risate con  Bukowsky, ho condiviso le angosce di Kafka e adoro sia la scrittura brillante di Oscar Wilde, sia la sua vena più intimista, espressa nel “De Profundis”. Osho lo ritengo un maestro di vita, apprezzo molto Calvino, Baricco, Pennac e Bulgakov, che ritengo il mio scrittore preferito.

Progetti futuri in cantiere?

Come già accennato, per ora, stiamo ragionando con Luciano su come realizzare altri corti, in particolare un adattamento da Lovecraft. Nell’immediato invece sarò nel cast di un videoclip musicale di un artista trap, Pavel.

Ti va di salutare in qualche modo i tuoi follower e i lettori di CineAvatar?

Certo, un caloroso saluto a tutti i lettori di CineAvatar, sperando che possano apprezzare il nostro lavoro. Sarei curioso di conoscere dei feedback sinceri da tutti voi che siete appassionati ed esperti del genere horror.