Abbiamo intervistato il regista siciliano Luciano Attinà, autore della regia e della sceneggiatura di un corto horror molto atteso, e ora in post-produzione, “Kami No Virusu”.
Ecco cosa ci ha raccontato!

Buongiorno Luciano! Come e quando nasce la tua grande passione per il cinema?

La passione per il cinema, o meglio per gli audiovisivi, credo di averla sempre avuta. In generale durante lunghi periodi della mia giovinezza mi è capitato (purtroppo o per fortuna) di preferire la compagnia di tv, cinema, musica e  fumetti a quella delle persone. Questo mi ha portato quasi in maniera naturale a cercare di capire come venissero creati i mondi in cui mi perdevo e soprattutto a cercarne sempre di nuovi.

Quanto sono serviti gli studi al DAMS di Bologna nella tua carriera di regista?

Il DAMS di Bologna mi ha permesso più che altro di acquisire dei mezzi critici specifici per uno studio sistematico del cinema. Questo mi ha spinto a guardare un numero elevato di pellicole di varia natura, con un occhio più analitico. Il che, immagino, abbia influito anche sul modo con cui mi approccio alla regia.

Di quali temi ti occupi per la rivista “Fata Morgana”?

Tendenzialmente su Fata Morgana scrivo di film di genere, con l’obiettivo di metterne in luce i sottotesti ideologici che, in qualche maniera, ne determinano le narrazioni. Mi sono occupato, per ora, del rapporto fra macchina mitologica, cinema e supereroi, della concezione dell’umano nella trilogia cyberpunk di Tsukamoto, della questione animale nei moderni monster movie e anche di fascismo e commedia all’italiana.

luciano attinà

(foto di Michela Calzoni)

Prima di passare a cinema e documentari, volevo parlare con te dei video musicali, dei quali spesso curi la regia. Qual è il video musicale che hai girato al quale sei più affezionato?

Diverse analisi del videoclip sostengono che esso sia una forma estetica che, se da un lato prende in prestito dal cinema tutto il suo apparato tecnico e il suo corpus stilistico, dall’altro, invece, rielabora questo patrimonio attraverso mezzi di produzione più economici e lo ibrida pesantemente con prestiti dalle altre arti popolari, come il fumetto, la grafica etc… Dunque per sua natura il videoclip appare come una forma di comunicazione fluida e cangiante, capace di fornire un certo grado di libertà nella scelta delle soluzioni da adottare per trasformare i ritmi e  i tempi veicolati dalla musica, o l’immaginario elaborato dai musicisti, in immagini che si inseriscano in una strategia comunicativa già collaudata. È questo processo che mi attira nella forma videoclip e quindi sono legato a tutti quei lavori che ho girato da regista, dove ho potuto sperimentarlo in prima persona.

Dovendo scegliere, però, sono particolarmente affezionato a due lavori: “Night Of The Living Deathmatches” dei Crisis Benoit e “Trafficanti di ombre” degli Egestas. Gli Egestas mi hanno dato carta bianca, permettendomi di usare il loro grandioso blackened post-hardcore per dare nuovo e più compiuto senso a idee e immagini che ho accumulato negli anni, sul tema delle migrazioni. In particolar modo hanno trovato la loro dimensione nell’universo in rovina descritto dagli Egestas, quelle immagini che ho girato nella Valle dei Templi di Agrigento, con protagonista Mamadou Kebe.

“Night Of The Living Deathmatches” è invece il secondo video che ho girato per i Crisis, un gruppo che si muove fra grind, death metal old school e hardcore e che fa ruotare il proprio immaginario attorno al wrestling estremo e all’horror. Questo video ha confermato il forte sodalizio artistico e umano che mi lega a Pavel e Domes (i Crisis) ed è stato fondamentale perché  mi ha spinto a tornare proprio su un genere, l’horror, che negli ultimi tempi avevo un po’ trascurato.  Si tratta di un videoclip espanso, un piccolo omaggio a Lucio Fulci ideato insieme ai Crisis. Hanno preso parte a questa stramba festa macabra tanti amici come Luca, Carla, Antonio, Lucky, Ennio e Beatrice, oltre che Darya Idili, bravissima attrice con la quale ho lavorato per la prima volta in quella occasione e con cui oramai ho stabilito un rapporto di collaborazione degno di quello fra la Dietrich e Von Sternberg, o meglio ancora fra Ed Wood e Vampira.

“Il ritratto”, nel lontano 2009, è, correggimi se sbaglio, il tuo esordio alla regia. In questo corto affronti uno dei più grandi scrittori horror al mondo, Edgar Allan Poe…

Prima de “Il ritratto” avevo già girato dei piccoli corti horror amatoriali. “Il ritratto” è il primo corto che ho girato in maniera semiprofessionale. Si tratta di un’opera al limite, che gioca con l’idea secondo la quale le videocamere digitali consumer avrebbero permesso al linguaggio filmico, semplificandolo, di divenire una forma espressiva comune, come la scrittura o il disegno – fu girato fra il 2008 e il 2009, dunque agli albori dell’affermazione dei social media… Partendo da questa idea, semplicemente, ho sostituito la figura del pittore de “Il ritratto ovale” di Poe con quella di un videomaker che decide di girare un piccolo documentario/video intervista con protagonista la propria fidanzata, un’attrice alle prime armi. Il corto è girato in p.o.v. ed è in buona parte, per quanto concerne il pro-filmico, frutto di un lavoro d’improvvisazione svolto con l’attrice Agathe Philippe. Sebbene presenti, in maniera sottile e quasi subliminale, riferimenti al vampirismo, all’alchimia e alla pittura rinascimentale, “Il ritratto” utilizza nella messa in scena una serie di stilemi più vicini all’immaginario della Nouvelle Vague francese, che al cinema gotico tradizionale. D’altronde proprio “Il ritratto ovale” è una delle fonti d’ispirazione per “Questa è la mia vita” di Godard, film che al tempo vedevo e rivedevo…

luciano attinà

(foto di Salvatore Cavalli)

Tra il 2012 e il 2014 giri un documentario sui punk bolognesi, “Punk@Bo – L’aspetto punk di Bologna”. Ci puoi parlare nei dettagli di questo interessantissimo progetto?

Punk@Bo è un documentario girato insieme a Fabrizio Fantini. Voleva essere, da un lato, una disamina delle contraddizioni di quella sottocultura punk, nata come un perfetto prodotto della “società dello spettacolo” degli anni settanta e che però, nel tempo, ha affinato le proprie potenzialità eversive, legandosi indissolubilmente a ideologie libertarie. Dall’altro lato si prefiggeva di raccontare quello che era il punk, nel 2012-13, a Bologna, città che è sempre stata fucina creativa per le avanguardie musicali e dove, ancora oggi la sottocultura punk prospera. Da un punto di vista stilistico abbiamo provato a estremizzare le caratteristiche del rockumentario, cercando di trasformare il documentario stesso in un “punk-movie”, attraverso un montaggio ipercinetico, l’uso di b-roll e un punto di vista partecipativo.

Nel 2013 sei direttore della fotografia del documentario “L’acqua calda e l’acqua fredda”, di Marina Resta e Giulio Todescan. Di cosa parla?

Il documentario di Marina e Giulio traccia un parallelo tra l’esperienza dei lavoratori pugliesi emigrati in Veneto, a Vicenza, che si sono trovati a lavorare nelle acciaierie Valbruna e quella degli operai delle Acciaierie Ferriere Pugliesi di Giovinazzo.

L’anno seguente giri “Stranded No More”, cortometraggio che si occupa di un tema a te molto caro e ricorrente nelle tue opere, quello dei migranti. Ce ne puoi parlare?

“Stranded No More” racconta l’epopea dei migranti, attraverso le voci di alcuni di loro e usa la metafora di un match fra i pugili Diop Ngouda e Madalin Pavel, per descrivere le difficoltà dei viaggi nel Mediterraneo. In realtà si può dire che questo corto sia una versione embrionale di quello che poi sarebbe diventato il video “Trafficanti di ombre”, in cui ho cercato di creare un legame fra il viaggio dei migranti africani e i viaggi mitici di eroi classici come Ulisse o Icaro (“viaggiatore” in senso lato). In entrambi i video l’Occidente viene visto, per metonimia, solo attraverso le proprie rovine, ovvero le spiagge della Sicilia, invase dal dissesto edilizio di un capitalismo senza freni. La metafora dello scontro di pugilato rimanda per me a una dimensione eroica primaria, che ho cercato di rappresentare attraverso gli stilemi del cinema action e la costruzione di inquadrature debitrici dei fumetti di supereroi.

“Stranded No More” appare forse come un lavoro meno compiuto rispetto a “Trafficanti di ombre”, per il suo tentativo di mixare le testimonianze dirette di alcuni migranti con l’ambizione di trascendere l’oggetto documentaristico. In ogni caso questo corto rimane per me fondamentale, perché ha segnato l’inizio del mio lavoro sulle migrazioni con il fotoreporter e attivista Salvatore Cavalli.

“Tacchi rotti eppur bisogna andare…al Pride”, un documentario in supporto delle lotte LGBQT+A. Come andò in quell’occasione?

Al tempo frequentavo il centro sociale Atlantide. Oltre a essere la sede del collettivo punk Nulla Osta, Atlantide era anche la sede di vari collettivi impegnati nelle lotte LGBQT+A. Purtroppo il Comune di Bologna, retto dal PD, mostrando la solita incapacità di comprendere l’importanza delle esperienze aggregative e culturali sorte dal basso e autogestite, decise di sgomberare il centro sociale per dare un contentino alla destra più becera. Atlantide organizzò varie forme di protesta, fra cui un corteo parallelo al Gay Pride, col quale si voleva ribadire l’autonomia del movimento LGBQT+A dalle logiche di pink washing messe in atto dallo stesso Comune. Mi fu chiesto di girare un video che documentasse l’iniziativa e io sono stato più che felice di mettere la mia videocamera al servizio di una lotta che condivido al cento per cento.

Nel 2018 giri, in collaborazione con Salvatore Cavalli, il video-oggetto “Manifesto n. 1”. Di cosa parla il video-oggetto? Cosa intendi, più in generale, quando definisci le tue opere dei video-oggetti?

“Manifesto n.1” non è altro che un piccolo manifesto video, appunto, dove si ribadisce quell’idea secondo la quale nessun uomo si può dire veramente libero, finchè anche un solo suo simile è prigioniero. Considerato il modo in cui è gestita la situazione dei migranti, se portassimo alle estreme conseguenze il ragionamento, nessuno di noi al momento potrebbe dirsi realmente libero… Attraverso immagini descrittive del “Centro di accoglienza” di Lampedusa e del C.A.R.A. di Mineo ho, insomma, cercato di suggerire l’idea che viviamo in una società-prigione, in cui ci illudiamo di poter godere di una libertà che cerchiamo costantemente di portare via a chi, in qualche maniera, mette in crisi la nostra fragile nozione di normalità – siano essi migranti, che altri tipi di reclusi.

Per video-oggetto intendo un’opera audiovisiva che mette insieme immagini di varia natura: dalle riprese effettuate con camcorder consumer e cellulari a immagini realizzate con macchine fotografiche e videocamere pro.  Il video-oggetto è caratterizzato da una sintassi desunta non solo dal cinema, ma anche dal documentario, dal reportage televisivo e persino dai filmati amatoriali. Quindi si tratta di un video liminare, che, concentrandosi sull’immediatezza espressiva, estremizza l’estetica citazionista e frammentaria già presente nella forma videoclip, senza però doversi curare per forza degli standard tecnici o estetici proposti dal mercato. Ritengo che questa forma audiovisiva possa fornire un’ottima rappresentazione simbolica della nostra epoca, in cui i confini fra immaginario pop e quotidianità si fanno sempre più labili, mentre tutte le diseguaglianze e contraddizioni sociali ed economiche del tardo capitalismo finiscono per essere esorcizzate – ma non risolte – da una costante messa in scena spettacolarizzata del quotidiano.

In “La Rivoluzione è…” che prospettiva personale hai offerto al pubblico riguardo la figura femminile?

“La Rivoluzione è…” parte, alla stessa maniera de “Il ritratto”, dall’amara constatazione di come una relazione di coppia possa, nonostante l’amore, trasformarsi in una prigionia che tende ad annullare l’identità di una delle due parti o di entrambe. In questo caso però la donna prende coscienza di ciò che sta accadendo e decide di cambiare tutto. La protagonista si rende conto insomma di aver accettato per anni un ruolo, quello di compagna/amante, che probabilmente non le è mai appartenuto. Riformula allora la propria immagine/identità, secondo i canoni di una maschera grottesca, una specie di “Gelsomina infernale”, in modo da lasciare la stanza dove si consuma la fine della relazione con il compagno, per unirsi a un mondo in rivolta. Qui auspicabilmente, attraverso il rapporto con la collettività, ritroverà la propria individualità.

Ho cercato di girare questo cortometraggio come un Kammerspiel, utilizzando delle inquadrature con una composizione dell’immagine basata sulle simmetrie, le corrispondenze e le asimmetrie fra i corpi dei due personaggi. L’effetto complessivo che ho cercato è stato quello di una staticità nervosa, ottenuta attraverso la macchina a spalla, adoperata dal d.o.p. come se fosse stata fissa. Ho limitato solo ad alcune scene significative il montaggio ipercinetico e in generale ho cercato di dare risalto agli splendidi dialoghi, scritti da Giorgio Ferri, sceneggiatore del corto. Direi che all’origine di tutto ci sono le lunghe discussioni cinefile fatte proprio con Giorgio, durante alcune fredde notti piemontesi. Discussioni che per lo più ruotavano sul ruolo dello sguardo maschile nei confronti  del corpo femminile in certo cinema politico degli anni settanta. Per questo corto, inoltre, ho potuto avvantaggiarmi della musica delle Despertad e del talento di due attori straordinari, come Elisa Betti e Giacomo Spina, oltre che di una troupe alle prime armi, ma già molto professionale.

“Limbo’s Fragments – A Greek Portrait of Nawal Soufi”, documentario difficilissimo da girare! Raccontaci tutto!

“Limbo’s Fragments” racconta il campo profughi di Moria e la tendopoli adiacente, nell’isola greca di Lesbo, dal punto di vista di Nawal Soufi, una donna italo-marocchina che si dedica oramai da dieci anni alla lotta per i diritti umani, come attivista a tempo pieno. Il documentario si situa nel dicembre 2018 e racconta l’attività di Nawal nella tendopoli: la vita in quel luogo ha assunto i connotati di un’attesa senza fine, un limbo in cui i bambini sono costretti a giocare fra lamiere e filo spinato, mentre gli adulti sono sempre più abbandonati in quella che sembra una disastrata microsocietà da dopo-guerra.

Tutto partì dalla necessità che aveva Cristina, attivista emiliana, di trovare qualcuno che le desse una mano a portare a Moria degli aiuti umanitari – vestiti e medicine. In quel periodo Salvatore si trovava con Nawal a Lesbo e mi chiese se io fossi disponibile ad andare con Cristina.  Accettai immediatamente. Una volta arrivato lì, osservate le condizioni del campo e la caparbietà con cui Nawal cercava di aiutare i rifugiati, mi fu chiaro che, occupandomi di video, avrei potuto contribuire all’attività di Nawal provando a lasciare una traccia di tutto questo.

Qui più che in altri lavori è stato necessario porsi nella prospettiva, per quanto possibile, di semplice testimone. Il  fatto di essermi portato dietro solo una videocamera, un faretto e un microfono e la necessità di girare tutto il più velocemente possibile, spesso in condizioni davvero precarie – ci muovevamo, ovviamente, in conflitto con le autorità dell’isola – si è rivelato utile nel determinare un’estetica adeguata a questo scopo. Poi una parte emotiva molto forte la gioca la canzone “Resta compagna” dei Senderos de Viento, che esplicita la prospettiva con cui ho cercato di rappresentare Nawal e la sua lotta.

Hai appena finito di girare “Kami No Virusu”, cortometraggio molto atteso dai fans dell’horror italiani. Ci puoi raccontare qualcosa?

“Kami No Virusu”, lavoro per cui è stato fondamentale il tuo apporto produttivo, potrebbe essere definito un un corto “Trans-Human Horror Punk”. Rielabora, infatti, l’estetica del cyberpunk giapponese, adattandola alla cultura gotica e goth occidentale, per raccontare una storia che vede il suo fulcro in una mutazione dell’umano, imposta dal capitalismo biotecnologico.

La trama parte dal presupposto che nel regime neoliberista in cui viviamo, anche una tragedia come l’attuale pandemia può diventare occasione per far arricchire qualche multinazionale, qualora lo Stato deleghi la tutela della salute dei propri cittadini ad altri soggetti. Trattandosi però di un’opera di genere, le conseguenze di tutto ciò prendono una piega imprevista.

I protagonisti sono Darya Idili e Francesco Vallelonga, già attore di pubblicità e programmi televisivi. La fotografia è di Salvatore Cavalli. Del suono si è occupato Giovanni Frezza, dell’edizione Beatrice Marongiu e del make up Cristina Oddo. Hanno partecipato e sono stati fondamentali per la riuscita del progetto Antonio e Domenico Susca (rispettivamente aiuto regista e interprete di un colossale bodyguard luchador), Lucky Chernoznamentsy, Ernesto Troiani, Marco Benoît Carbone e Michela Calzoni. La colonna sonora è opera di “Mark Blessed”, progetto musicale che seguo fin dalle origini e per il quale girai il mio primo videoclip, “The law”, nel  2011. Inoltre il corto è anche una piccola opera metal-punk, nella tradizione di certi film della “Dark Age” degli anni novanta. Sono infatti presenti le canzoni “The Eternal March Of The Dead” e “Back From The Grave”, tratte dal nuovo album dei Crisis Benoit, “El Culto De La Muerte”, “Stillicidio” degli Egestas, tratto da “Oltre le rovine” e “Luce nera” degli Intothebaobab, tratto dall’omonimo album.

Cosa ne pensi del rapporto strettissimo tra cinema e capitalismo? Non credi che il cinema sia, nella quasi totalità dei casi, diretta emanazione del sistema capitalistico corrente?

Penso che la questione sia molto complessa. Il cinema è, al di là di tutto, un continuo movimento di integrazione di nuove tecnologie, volto a realizzare una sorta di opera d’arte totale (come quella vagheggiata da Wagner nell’Ottocento) che viene posta al servizio di un incessante meccanismo dell’intrattenimento. Tale meccanismo è parte integrante e fondamentale di un’industria dei media sempre più espansa, che si presenta come un insieme di conglomerati globali. Va da sé che il cinema industriale – e, sebbene in misura minore, anche quello indipendente – subisce un controllo molto forte da parte del sistema economico all’interno del quale agiscono quei conglomerati globali, cioè il tardo capitalismo neoliberista transnazionale. Si genera così, a fronte di un alto livello di perizia tecnica, un relativo appiattimento dell’immaginario e dei contenuti sulle posizioni intellettuali e i gusti delle classi sociali che gestiscono il funzionamento di tutto l’apparato.

Dunque sì, il cinema è legato al capitalismo in quanto esso è l’attuale sistema economico dominante che genera le tecnologie atte a creare e distribuire film. Ma ciò non significa che debba per forza essere così. Il cinema è anche, come ogni altra arte, uno strumento espressivo e può adattarsi a qualsiasi forma di organizzazione economico-sociale. Vi è stato un cinema fascista – per lo più mediocre o proprio brutto, ma tant’è… – come un cinema comunista/rivoluzionario, che ha arricchito le potenzialità narrative, espressive e comunicative del mezzo, generando elementi del linguaggio e tecniche tutt’oggi alla base della produzione audiovisiva – si pensi semplicemente al montaggio intellettuale di Ėjzenštejn o al Kinoglaz di Vertov. Personalmente penso che sarebbe utile per quel cineasta che volesse porsi il problema di un cinema non integrato nell’attuale sistema socioeconomico, porsi prima di tutto il problema di come posizionarsi al di fuori di questo sistema socioeconomico, indipendentemente dal cinema. E qui il discorso si fa ancora più complesso e credo esuli dall’ambito di questa intervista.

So che sei un grande amante del cinema horror. Quali sono i tuoi registi e film horror preferiti?

George A. Romero, John Carpenter, Tsukamoto Shin’ya (anche se questo non è un regista prettamente horror) e Rob Zombie. I film di questi registi, che in qualche maniera hanno trasformato la mia passione per l’horror in voglia di farlo, sono stati : “La notte dei morti viventi” di Romero, per il rigore delle scelte estetiche/etiche che, pur risultando estreme per i tempi, nulla concedono alla facile spttacolarizzazione; “Essi vivono” di Carpenter per la capacità di coniugare una messa in scena classica, quasi fordiana, a un immaginario da b-movie politicamente schierato; “Tetsuo. The Iron Man”, di Tsukamoto per la sua efficacia nel rappresentare la mutazione fisica, meccanica, sociale, economica, di genere ed estetica, come principio dominante della (post)modernità, attraverso una perfetta sincronia fra immagini violente e musica industrial; “La casa dei mille corpi”, per la follia dell’insieme e la violenza dello sguardo nichilista che Rob Zombie getta sulla natura umana e sulla società statunitense.

Altri film che vidi per la prima volta durante l’adolescenza e che, in qualche maniera, riemergono sempre quando mi approccio alla regia, sono “L’Armata delle Tenebre” e “La casa 2” di Raimi, “Dracula” e “Freaks”di Browning, “Frankenstein” di Whale, “Il gabinetto del dott. Caligari” di Wiene ed entrambi i “Nosferatu” , rispettivamente di Murnau e di Herzog. Infine devo citare Roger Corman ed Ed Wood, come fonti di ispirazione perpetua, artistica e umana.

In particolare, quali sono i tuoi film e registi horror italiani preferiti?

Fra i registi italiani horror apprezzo Lucio Fulci, Mario Bava e Riccardo Freda. Del primo amo la trilogia della paura e in particolar modo “…e tu vivrai nel terrore! – L’aldilà”. Questo film mi affascina per il modo con cui Fulci, attraverso tutta una serie di scelte di regia particolari, destruttura la sceneggiatura, portando lo spettatore lentamente, ma inesorabilmente, dentro un incubo surreale. Inoltre ammiro il valore altamente etico della violenza estrema mostrata.

Di Bava praticamente ogni film è un piccolo capolavoro, ma se devo scegliere scelgo “Sei donne per l’assassino”. Qui Bava dipinge in maniera magistrale un mondo emotivo, attraverso l’uso pittorico delle luci colorate, per trattare il tema dell’amore totalizzante e ossessivo, inteso come forza primordiale che può divenire una potenza distruttrice.

Per quanto riguarda Freda, banalmente, amo “I vampiri”, più che altro perché quel film raffinato e sottilmente perverso, ha dato il via alla stagione del “gotico italiano” e ha fornito nuova linfa a tutta una serie di topoi del genere – lo stretto legame fra classe dominante e vampirismo e l’utilizzo di correlativi oggettivi scenografici per suggerire la natura sinistra di un mondo stregato, sono i primi che mi vengono in mente…

Cosa ne pensi dell’attuale situazione del cinema horror italiano?

Se parliamo di mainstream, ritengo che il cinema horror italiano attuale sia molto limitato. Per lo più tende a riprodurre i modelli anglosassoni, anche con una certa intelligenza e gusto, ma mostra tutti i propri limiti quando si tratta di competere dal punto di vista della spettacolarità, della costruzione di mostri/icone universali o di immaginari in grado di dare un punto di vista non canonico sul mondo che ci circonda.

Se invece parliamo di horror indipendente, devo dire che, a fronte di possibilità economiche irrisorie – con tutti i limiti artistici e interpretativi che esse comportano -, sembra essersi sviluppato un microcosmo dove immagini fuori dagli standard tradizionali lasciano spazio, se non sempre a riflessioni complesse sulla realtà, certo a un immaginario folle e violento, che qualche volta fa risorgere quel senso dell’assurdo che caratterizzò la produzione horror italiana degli anni sessanta e settanta.

Hai un sotto-genere del cinema horror che preferisci rispetto agli altri?

Non sono sicuro. A volte è il body horror, altre volte i gotici, altre ancora gli zombie movie e lo slasher, spesso la roba Troma…

Ti piace leggere? Se si, quali sarebbero i titoli che porteresti nella classica isola deserta?

La letteratura è qualcosa da cui non si può prescindere quando si decide di far cinema. Sulla classica isola deserta porterei “Hagakure” di Yamamoto Tsunetomo, “Il libro dei cinque anelli” di Miyamoto Musashi, i racconti gialli di Poe, una raccolta di racconti di Lovecraft, probabilmente quelli relativi al mito di Cthulhu, “Lo straniero” di Camus, la “Divina Commedia” di Dante, “Anarchismo” di Chomsky e “Il capitale” di Marx – così forse finalmente riuscirei a leggerlo tutto.

Progetti futuri a livello cinematografico dopo “Kami No Virusu”?

Sto lavorando a un adattamento in p.o.v di un racconto di Lovecraft e ho una sceneggiatura con gli zombie, pronta per esser prodotta. Nel frattempo devo completare il montaggio del tour inglese dei Crisis Benoit e prima o poi chiuderò un vecchio progetto, con protagonista Francesco Vallelonga, dal titolo “Il ritorno del Fantasma Rosso”.