Baghdad Central, la caduta di Saddam Hussein e la ricerca della propria figlia, con Corey Stoll e Waleed Zuaiter
Sul finire degli anni duemila, Stephen Butchard (The Last Kingdom) ebbe una folgorazione: Casa Saddam (2008). Miniserie biopic atipica e innovativa in quattro puntate, con cui raccontare ascesa e caduta di Saddam Hussein dal 1979 sino al 2003. Prodotta da BBC, fu un successo strepitoso di critica e pubblico, autentico apripista di opere (mini)seriali con cui raccontare l’altra faccia del male; alla Narcos (2015-2017) su Pablo Escobar per intenderci. A dodici anni di distanza, Butchard ci riprova con Baghdad Central (2020). Improprio, o se meglio preferite, ideale sequel di Casa Saddam, con cui raccontare di un più che tipico dramma familiare a tinte noir, sullo sfondo del sogno democratico di un Iraq libero dal suo dittatore.
Prodotta da Euston Films, parte di Fremantle; tratta dell’omonimo racconto del 2014 di Elliott Colla. La miniserie di Butchard è infatti ambientata nella capitale del 2003, all’indomani della cosiddetta seconda Guerra del Golfo. Operazione militare condotta congiuntamente dalle forze statunitensi e britanniche che hanno dato il via a quella che al tempo venne denominata Operazione Iraqi Freedom con l’obiettivo di deporre il regime di Saddam e disarmare esercito e polizia irachena.
Nel cast della miniserie disponibile integralmente su NowTv e in onda su Sky Atlantic dal 18 gennaio 2021 figurano Corey Stoll, Bertie Carvel, Waleed Zuaite, July Namir, Leem Lubany; Tawfeek Barhom, Charlotte Spencer, Clara Koury e Neil Maskell.
Baghdad Central: la sinossi della miniserie TV ideata da Stephen Butchard
L’ex ispettore Muhsin Al Khafaji (Waleed Zuaite) ha perso tutto. Vive unicamente per mantenere al sicuro sé stesso; la secondogenita Mrouj (July Namir), malata da tempo; nonché la figlia maggiore, Sawsan (Leen Lubany). Una sera, Sawsan svanisce nel nulla, risulta scomparsa. Muhsin si mette così alla sua ricerca finché non accade un imprevisto.
L’ex ispettore viene infatti confuso per un altro uomo, ritrovandosi in manette; arrestato; e infine torturato dall’esercito americano perché sospettato d’essere un membro della milizia irachena. L’incontro con un ex ufficiale di Polizia britannico, Frank Temple (Bertie Carvel), lo aiuterà a far luce sull’accaduto. Temple infatti, lo recluta per lavorare con lui nella Green Zone a stretto contatto con la sezione della polizia militare statunitense del Capitano Parodi (Corey Stoll). Nel pieno della rivoluzione irachena, Muhsin inizierà un viaggio con cui scendere sin nei bassifondi di Baghdad, solo per poter ritrovare sua figlia.
Baghdad Central: un solido neo-noir sullo sfondo dell’Iraq democratico
Da Commando (1985) alla saga di Taken (2008), sino agli eventi in preparazione della climax stessa alla base di Arma letale (1987), l’opera miniseriale di Butchard ha il merito di poggiare le basi su uno dei più classici e trainanti topos narrativi: il ritrovamento della figlia da parte di un padre. Partendo da qui, Butchard lo carica tutto sulle “spalle stanche” di un eroe protagonista come Muhsin. Agente scenico tipicamente classico in bilico – sin dalle prime battute di racconto – tra il mantenere il proprio status di ex-poliziotto, e il voler sperimentare “strade alternative” per amore paterno.
Baghdad Central ne rilegge in modo incisivo l’inerzia sfruttando al massimo la sua carta vincente: un contesto scenico esotico immersivo e dalla forte carica valoriale. Scelta interessante in tal senso, perché, collocandosi all’indomani della Iraqi Freedom – quando l’Iraq è ancora indeciso se leccarsi le ferite della deposizione di Saddam o lavorare per ricostruirsi in un mondo (apparentemente) libero – un padre si ritrova una figlia dispersa nel nulla.
L’arguzia della creatura miniseriale di Butchard emerge in tutta la sua forza. Nel dispiego del suo solidissimo intreccio, Baghdad Central vede avvolgere l’enigma della sparizione di Sawsan attorno a un viaggio dell’eroe classico dai contorni sempre più contorni esistenziali, e a un sottotesto colorato di pungenti riflessioni sul ruolo della donna; l’emancipazione e la dignità della stessa nell’Iraq moderno e in quello neo-nato; nonché su quanto possa essere libera una democrazia definita tale ma che, di fatto, è sempre più simile a un’occupazione militare a pieno titolo. Grande merito, in tal senso, alla codifica d’immagini fornita da Alice Troughton (Doctor Who). Regia dal marcato taglio realistico, capace di ben gestire il respiro del racconto, ora risultando cruda e senza filtri; ora claustrofobica e compassata.
Il sapore internazionale di una potenziale (mini)serie evento
Al momento della messa in onda statunitense, le recensioni Oltreoceano definirono Baghdad Central: “un noir nel deserto“. Certamente un’espressione semplicistica, d’impatto, ma che ben si sposa nel voler porre i contorni, in termini semantici della miniserie ideata da Stephen Butchard. Sei puntate dal ritmo netto, teso, che grazie a una narrazione dal sapore neo-noir dalla fortissima carica immersiva, e dalla matrice tipicamente derivativa, ci trascina nella criticità del contesto scenico post-Saddam. Gettandoci in faccia tradizioni e folklore; l’indifferenza della gente; il dolore di un’unità familiare praticamente insaldabile. Un’opera che nel suo entrare in punta di piedi nel panorama seriale contemporaneo ha tutte le carte in regole per imporsi come inaspettata rivelazione della stagione.
Non a caso, all’indomani del series finale, Alice Troughton ha rivelato al BFI 2020 come le possibilità di un’evoluzione narrativa “in seriale” è più che possibile; tanto da spingere la produttrice Kate Harwood ad indicare da subito quella che potrebbe essere la potenziale trama:
Le accuse rivelatisi poi vere, secondo cui miliardi di dollari di fondi del governo statunitense, destinati alla ricostruzione, furono sottratti durante la Seconda Guerra del Golfo. Dove ci sono soldi c’è crimine e dove c’è crimine c’è un crime drama! Ecco il mio pitch per la seconda stagione di Baghdad Central!
Serve capire se sarà riscontrato un certo “appetito internazionale per Baghdad Central.” A detta della Troughton infatti:
Sarebbe molto stimolante poter avere una seconda stagione su cui lavorare. Abbiamo bisogno di storie dal sapore internazionale. Siamo un mondo globale; dobbiamo unirci in una narrazione unitaria.