Centenario di Sette anni di guai:
Max Linder e il ricordo di uno specchio rotto
È difficile trovare nella storia del cinema un periodo più decisivo di quello compreso tra la fine della Prima Guerra Mondiale e l’inizio degli anni ’20. Cento anni fa l’economia cinematografica statunitense viveva momenti di inarrestabile espansione: la filiera si è consolidata con il noto sistema dell’integrazione verticale (produzione-distribuzione-esercizio), venivano “importati” i primi autori e maestranze dall’Europa, i film americani invadevano i mercati stranieri. Anche il cinema, insomma, sembrava avere la strada spianata verso i Roaring Twenties.
Dal punto di vista dei contenuti a dominare è ancora il genere comico, che perfeziona la maturità linguistica e narrativa acquisita nel decennio precedente. E proprio quest’anno, il 6 febbraio 2021, si è celebrato il centenario della prima proiezione pubblica di Sette anni di guai (Seven Years Bad Luck), capolavoro del (troppo poco ricordato) genio di comicità Max Linder.
Mentre Chaplin e il suo monello commuovono il mondo, la Great Stone Face di Buster Keaton fa sbellicare le platee più disparate e le funamboliche performance di Harold Lloyd gli garantiscono un successo dietro l’altro, «le grand homme du cinéma français», come definito dal pioniere della critica cinematografica europea Louis Delluc, realizza Seven Years Bad Luck, il primo dei tre lungometraggi che il comico francese gira negli Stai Uniti (seguìto da Be My Wife nello stesso anno e The Three Must-Get-Theres l’anno successivo), e da molti considerato il più riuscito della sua carriera.
Risvegliatosi dopo una notte in cui ha esagerato con lo champagne, Max, molto superstizioso, rompe accidentalmente uno specchio. Le situazioni comiche sono quindi innescate dai tentativi del protagonista di evitare ogni possibile circostanza che si riveli anche minimamente pericolosa, cacciandosi così in un guaio dietro l’altro.
Dopo che le sue centinaia di comiche hanno fatto da apripista per altri, con Seven Years Bad Luck Max Linder raggiunge finalmente l’apice della carriera, il punto di arrivo personale. Purtroppo, però, la disgrazia è dietro l’angolo. Gli anni americani costituiscono infatti l’inizio di un declino inarrestabile e fatale, che culminerà con la depressione e il suicidio nel 1925.
Quella di Max viene ricordata come la prima maschera – o “tipo” – della storia del cinema: baffetti ben curati, cilindro, guanti e attitudine propria del dandy dall’eleganza inappuntabile, simbolica (e ovviamente parodistica) cristallizzazione dell’ideale maschile originario della Belle Époque. Lo stesso Chaplin lo riconosce più volte come maestro e modello per la creazione di Charlot.
Sette anni di guai testimonia la completezza della personalità comica di Linder, per la prima volta in grado di sganciarsi dall’eredità circense e di vaudeville con cui gli showman dell’epoca si accostavano al cinema. Acrobatismo, travestimento, parodia, battute di spirito, il tema dell’equivoco lo rendono uno dei film più eterogenei e divertenti dell’intero decennio, e mettono in mostra l’inesauribile bagaglio di una delle figure più importanti per l’evoluzione del linguaggio cinematografico.