Il Grande Dittatore, esorcizzare la paura ridicolizzando il Terzo Reich, con Charlie Chaplin e Paulette Goddard

Da sempre poco arrendevole all’uso del sonoro nel suo cinema, con Il grande dittatore (1940) Charlie Chaplin realizza un audace – e fortemente allusivo – racconto di satira politica, capace di mescolare sapientemente momenti comici da “vecchia scuola” del cinema muto, ad altri “sonori” tra il romantico e il drammatico. A poco più di 80 anni di distanza, la forza narrativa e l’impatto emotivo de Il grande dittatore, non perdono d’intensità.

Trovando il suo apogeo nell’oramai leggendario finale, reso grandissimo da un monologo capace di superare i confini del tempo per cristallizzarsi infine nella memoria comune. Come spesso accaduto, del resto, lungo tutto l’opus chapliniano: nel caso ad esempio nella camminata a braccetto verso un futuro incerto di Tempi moderni (1936), sino alla romanticissima sequenza della rivelazione in Luci della città (1931) tra il Vagabondo e la fioraia; probabilmente il più grande finale mai scritto. Il grande dittatore in questo, non è da meno.

Charlie Chaplin in una scena de Il grande dittatore

In via ufficiale, l’idea per Il grande dittatore risale al 12 novembre 1938: due giorni dopo la notte dei cristalli. Così chiamato il giorno in cui le SA/Sturmabteilungen bruciarono 1406 sinagoghe e case di preghiera ebraiche radendo al suolo cimiteri; luoghi di aggregazione; nonché negozi e case private di ebrei. All’indomani quindi, Chaplin depositò la prima sceneggiatura del concept, noto all’epoca come The Dictator. Nella sceneggiatura vi erano eventi realmente accaduti e altri oggetto di parodia: come la visita di Mussolini in Germania e l’annessione dell’Austria da parte della Germania.

Leggenda narra, tuttavia, che i primi vagiti de Il grande dittatore risalgano a due anni prima, nel 1936. Durante una chiacchierata con Alexander Korda, produttore e amico di Chaplin, questi gli fece notare come Adolf Hitler gli fosse somigliante nella gestualità teatrale. Indagando un po’ scoprì una serie di particolari curiosi. Ad esempio, Hitler era nato nella sua stessa settimana (16 aprile, Chaplin; 20 aprile, Hitler); avevano all’incirca della stessa altezza e peso; ed entrambi crebbero in una situazione familiare similare. L’idea di una parodia era pressoché inevitabile, fosse solo per i baffi.

Nel giorno in cui l’Inghilterra dichiarò guerra alla Germania (3 settembre 1939) Chaplin distribuì le prime copie della sceneggiatura, iniziando le riprese de Il grande dittatore una settimana più tardi. Nonostante sapesse benissimo che sarebbe stato quasi impossibile vederlo distribuito nelle sale europee, Chaplin non badò a spese per Il grande dittatore. Risulta infatti il film più costoso del suo opus, sia per numero di comparse che su un piano tecnico.

Il grande dittatore: la sinossi del film di Charlie Chaplin

Durante la Grande Guerra, un barbiere ebreo (Charlie Chaplin) impiegato nell’esercito della Tomania, è addetto al funzionamento di un enorme cannone noto come “grande Berta”. In modo del tutto inconsapevole, il barbiere riesce a salvare la vita all’ufficiale Schultz (Reginald Gardiner) durante un’attacco aereo. Nel suo agire però, perde la memoria a seguito di uno schianto; ritrovandosi così costretto a restare in ospedale per alcuni anni.

Al suo ritorno alla vita civile, nel ghetto ebreo da cui proveniva, il barbiere resta sgomento dinanzi ai soprusi compiuti dai militari: gli imbrattano infatti i vetri del negozio con la scritta jew. Rimasto all’oscuro dell’ascesa del dittatore fascista Adenoid Hynkel (Charlie Chaplin), il barbiere farà squadra assieme assieme a una ragazza coraggiosa (Paulette Goddard) ribellandosi alle ingiustizie perpetrate dal regime.

I titoli di testa de Il grande dittatore

La morte di Charlot, l’esperanto come metafora linguistica

L’opera assume maggior rilevanza se pensiamo che le fortune artistiche di Chaplin si sono basate, principalmente, sulla pantomima e il cinema muto. L’interprete de Il monello (1921) era ben consapevole quindi che la climax alla base de Il grande dittatore, avrebbe significato il canto del cigno del Vagabondo. Scelta dolorosa ma necessaria. Chaplin, fortemente provato dal riecheggio degli orrori della guerra, era molto motivato a non tacere in un momento simile; nonostante lui stesso affermasse come:

Se avessi conosciuto gli orrori dei campi di concentramento tedeschi non avrei potuto fare Il grande dittatore; non avrei certo potuto prendermi gioco della follia omicida dei nazisti.

Il personaggio creato per Charlot si distingue (1914) infatti dopo trentasei anni appende cappello a bombetta e bastone da passeggio al chiodo per una giusta causa: condannare gli orrori del Nazismo facendosene beffa.

Il poster tedesco de Il grande dittatore

Per il suo primo film “parlato”, Chaplin attuò anche una scelta strategica. Al fine di arricchire di senso il sottotesto d’uguaglianza che emergerà poi, prepotentemente, nella climax, tutte le scritte; le insegne; i cartelli che compaiono nel ghetto, sono scritti in esperanto; la lingua universale/artificiale ideata da Ludwik Zamenhof sul finire dell’Ottocento con il preciso scopo di proteggere gli idiomi minori, altrimenti condannati all’estinzione dalle nazioni più forti. In pratica una metafora di cui Chaplin ci darà chiari indizi sin dall’apertura di racconto.

La difficile distribuzione italiana, i tagli nel Secondo Dopoguerra

Inoltre, come era lecito attendersi, la pellicola ebbe non poche difficoltà distributive in Europa. Adolf Hitler ne impedì il rilascio in Germania ma le cronache dell’epoca raccontano come lo vide, ben due volte, in delle proiezioni private. Uscito nelle sale statunitensi il 15 ottobre 1940, nel Vecchio Continente fu vietato per quasi cinque anni a causa della potere nazifascista che ne proibì la distribuzione. Per capirci, in Italia il Minculpop (Ministero della Cultura Popolare) emanò una disposizione dove si affermava di dover “ignorare la pellicola propagandistica dell’ebreo Chaplin“.

La bomba comica in apertura di racconto de Il grande dittatore

Il grande dittatore arrivò finalmente nelle sale italiane nel 1960 dove rimase però sotto censura per decenni. La distribuzione dell’epoca infatti, ridusse il film a 100 minuti circa, dimezzando il discorso della climax, tagliando infine le sequenze in cui appariva la moglie di Napaloni/Mussolini; unica persona vivente tra quelle a cui il racconto Chapliniano alludeva.

Se sono ariano? No, vegetariano

Se la trovata comica alla base del racconto de Il grande dittatore – ovvero lo scambio d’identità tra il barbiere e Hinkel – avviene solamente in chiusura di secondo atto e tramite un piccolo espediente da commedia d’equivoci, è nel corso del dipanarsi del racconto che Chaplin lavora su una struttura narrativa che erge tutta su due archi speculari e paralleli. Mentre il barbiere ebreo fugge dalla camicie grigie (ovvero nere, sotto censura NdR) infatti, Hinkel spadroneggia. Fa discorsi a caso in tedesco maccheronico; inciampa nel bel mezzo del corridoio; “gioca con il mondo” nel suo ufficio.

Laddove l’arco narrativo di Hinkel/Hitler procede attraverso un progressivo depotenziamento, nonché diminuzione della sua dimensione da “dittatore tutto d’un pezzo” all’interno del racconto – specie nell’incontro con Napoloni/Mussolini, è il barbiere ebreo ad essere oggetto di un arco di trasformazione da scuola del cinema. Passando così dall’accettare terrorizzato il proprio ruolo da eroe, al celebre momento del monologo finale di riscatto delle masse dinanzi agli oppressori. Nel realizzare il tutto, un concatenamento di sequenza di eventi da slapstick comedy dai brillanti momenti comici dall’andamento lineare e in piena scioltezza.

Charlie Chaplin in una scena de Il grande dittatore

In tal senso, quelle che rappresentano le due scene madri alla base della narrazione sono da ritenersi come momenti opposti e speculari nell’economia del racconto, appartenenti infatti alle due anime narrative de Il grande dittatore.

Il “giocare con il mondo” di Hinkel infatti, oltre a essere l’ultimo grande gioiello cinematografico da “Chaplin muto”, è una sequenza fatta interamente di piani medi e di movimenti di regia tutto sommato scolastici. Nessun particolare guizzo quindi, ma una sequenza a cui Chaplin cuce addosso un’allegoria da cui traspare la drammaticità del momento storico. Un dittatore pazzo convinto di avere il mondo tra le mani – e che finisce con l’esplodergli in faccia.

Il grande dittatore: l’importanza della leggendaria climax

Se la sequenza dell’ufficio rappresenta – seppur solo a livello metaforico e non scenico – la fine di Hinkel, è il celebre discorso finale a porsi in totale opposizione. Da leggersi infatti come la conclusione dell’arco narrativo del barbiere ebreo, nonché del racconto stesso. Nel monologo finale che permea interamente la climax, la narrazione de Il grande dittatore si concede un momento di didascalismo necessario.

Fino a quel punto infatti il racconto di Chaplin riesce a trattare la tematica dell’oppressione razziale verso gli ebrei senza mai scadere nel pietismo e nel didascalismo; anche nei momenti più drammatici mascherati dalla verve comica chapliniana. Giunti però alla climax, oggi leggendaria, Il grande dittatore sprigiona tutta la carica patetica del racconto agendo però in modo funzionale e mediante un raffinato espediente “d’equivoci”.

Charlie Chaplin

Chaplin rompe la quarta parete; guarda dritto in camera; e seppur rivolgendosi a livello scenico ai soldati – uomini-macchina dalle menti-macchine – parla in verità a tutti gli uomini e donne del mondo:

L’odio degli uomini scompare insieme ai dittatori e il potere che hanno tolto al popolo ritornerà al popolo; qualsiasi mezzo usino, la libertà non può essere soppressa. Soldati! Non cedete a dei bruti. Uomini che vi disprezzano e vi sfruttano che vi dicono come vivere; cosa fare, cosa dire, cosa pensare; che vi irreggimentano, vi condizionano, vi trattano come bestie. Non vi consegnate a questa gente senza un’anima; uomini macchina, con macchine al posto del cervello e del cuore. Voi non siete macchine, voi non siete bestie: siete uomini!
Voi avete l’amore dell’umanità nel cuore, voi non odiate coloro che odiano sono quelli che non hanno l’amore altrui. Soldati! Non difendete la schiavitù, ma la libertà.

Per poi continuare, inneggiando alla carica propulsiva del popolo e delle masse che possono cambiare il mondo:

Ricordate nel Vangelo di San Luca è scritto: “Il Regno di Dio è nel cuore dell’uomo“. Non di un solo uomo o di un gruppo di uomini; ma di tutti gli uomini. Voi! Voi, il popolo, avete la forza di creare le macchine; la forza di creare la felicità. Voi, il popolo, avete la forza di fare che la vita sia bella e libera; di fare di questa vita una splendida avventura. Quindi, in nome della democrazia, usiamo questa forza. Uniamoci tutti! Combattiamo per un mondo nuovo che sia migliore! Che dia a tutti gli uomini lavoro; ai giovani un futuro; ai vecchi la sicurezza.

Attaccando infine la demagogia dei potenti:

Promettendovi queste cose dei bruti sono andati al potere. Mentivano! Non hanno mantenuto quelle promesse, e mai lo faranno! I dittatori forse sono liberi perché rendono schiavo il popolo. Allora combattiamo per mantenere quelle promesse! Combattiamo per liberare il mondo, eliminando confini e barriere; eliminando l’avidità, l’odio e l’intolleranza. Combattiamo per un mondo ragionevole. Un mondo in cui la scienza e il progresso diano a tutti gli uomini il benessere. Soldati, nel nome della democrazia, siate tutti uniti!

Declamando un monologo di libertà e fratellanza dal messaggio che supera i confini del tempo arrivando dritto ad incastonarsi tra le nostre sinapsi. Un momento raro nella storia del cinema di cui era ben consapevole Chaplin caricando di valore il suo alter-ego, facendogli infine pronunciare parole che parlano di speranza per un futuro migliore:

Le nuvole si diradano, comincia a splendere il sole. Prima o poi usciremo dall’oscurità verso la luce; e vivremo in un mondo nuovo. Un mondo più buono, in cui gli uomini si solleveranno al di sopra della loro avidità; del loro odio; della loro brutalità.

Farsi beffa dell’orrore, superare i confini del tempo 

Candidato a 5 Oscar 1941 tra cui Miglior film e Miglior attore protagonista; osteggiato dalla distribuzione dell’epoca; dai politici; dall’intera Hollywood; perfino dagli stessi produttori che gli sconsigliarono di avvolgere la climax su di un monologo dalla portata rivoluzionaria ma potenzialmente catastrofica sugli incassi. Ebbe coraggio Chaplin, e nonostante le censure, la contro-propaganda diffamatoria, i tagli, ne beneficiò la valenza filmica di un’opera che – nel suo avvicinarsi al secolo di vita – riesce ancora oggi a stupire per l’arguzia della parodia di cui si fa forza.

La grandezza de Il grande dittatore sta proprio lì. Nella capacità di Chaplin di saper cogliere gli stereotipi demagogici della propaganda di potere in modo naturale; lasciando che che la carica parodistica del racconto sgorghi spontaneamente tra gag pacifiche e risate strappate al fine d’esorcizzare l’incubo a occhi aperti del Nazismo. Un formidabile lavoro di bricolage narrativo che vive delle tipiche gag chapliniane catapultate però in un contesto scenico fatto di violenza, orrore; controspionaggio e speranza; elementi tangibili di un mondo nel caos e dell’indomita lotta dei puri di cuore.

Poi la climax. Chaplin alza la cifra stilistica del suo già ricercato linguaggio filmico, spezzando l’inerzia del racconto, in un discorso d’ardore contro i soprusi e le ingiustizie del mondo che nel far emergere il sottotesto lasciato sedimentare – e tra lo stupore generale – consegna il racconto all’immortalità cinematografica.