Jim Carrey: a serious man – I suoi 5 migliori ruoli drammatici

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Jim Carrey
Jim Carrey
Quella di Jim Carrey è una tela su cui puoi dipingere ogni espressione, smorfia, o ghigno che ti passi per la testa. È un viso di gomma, il suo, dalle mille potenzialità recitative e parodistiche. Ace Ventura, The Mask, Una settimana da Dio, Lemony Snicket: una serie di sfortunati eventi, sono solo alcuni di quei capitoli filmografici che hanno impresso il nome di Jim Carrey nel cuore dei propri fidati spettatori. Basta sentirlo solo pronunciare il suo nome, e subito l’animo si rincuora e il viso si rilassa. Come un divo dell’epoca d’oro di Hollywood, il passato extradiegetico (ossia, la galleria dei personaggi interpretati dall’attore nel corso della sua carriera) hanno dato vita a un mega-personaggio pronto a inglobare lo stesso Carrey, eliminando i confini che separavano la sua immagine attoriale da quella personale. E così Jim Carrey diventa il buffo attore capace di imitare l’inimitabile, e di disegnare sul proprio viso una e più mille sfaccettature espressionistiche. Un viale del successo già segnato, il suo, quando all’età di dieci anni quando mandò il suo curriculum al The Carol Burnett Show. Perfino i suoi insegnanti di liceo alla fine di ogni giornata di scuola gli lasciavano qualche minuto per un’esibizione alla maniera dei cabaret.
Ma dietro quella maschera si nasconde un uomo spesso affogato in un mare di lacrime. “Ridi, pagliaccio” si potrebbe sentire cantare in sottofondo, ma Jim Carrey, (all’anagrafe James Eugene Redmond Carrey) di ridere per anni non ce l’ha fatta. Soffocato dalla depressione di cui, ormai, non fa più segreto – «Ne ho sofferto per anni e sono sempre stato onesto perché non è più la mia compagna costante» ha affermato di recente – per un periodo di tempo l’attore ha lasciato che le luci della ribalta non lo accecassero, chiudendosi negli antri bui della propria anima. Gallerie di maschere e personaggi iconici, la carriera di questo istrionico interprete è una mappa del tesoro che ha lasciato indizi circa non solo il desiderio di allontanarsi da quela tipologia di attore in cui era stato ingabbiato, ma di dar voce al lato oscuro della propria sfera personale. Scorrendo i titoli di cui si compone la sua fitta e lunga filmografia (la sua prima partecipazione su un set cinematografico risale al 1983 nel film The Sex and Violence Family Hour di Harvey Frost) sono sei quelli che abbiamo deciso di trattare. Sei, come le facce di un cubo che dietro la risata nascondono la pazzia, l’ossessione, il ricordo, la paura di sentirsi diverso.  Una consapevolezza che l’ha portato perfino ad amare la parola “tristezza”, emozione alimentata dal sale delle lacrime senza cui, come ci ha insegnato il film Inside Out, non comprenderemmo appieno la bellezza della felicità. dopotutto, come ha affermato lo stesso Carrey, «la vita è un’altalena tra la gioia e la tristezza e a volte bisogna affrontarle con la convinzione che gli stati d’animo spesso derivano da circostanze esterne che non puoi gestire e/o controllare».
Jim Carrey
The Truman Show, regia di Peter Weir (1998)
Dietro la comicità estrema, Jim Carrey dimostra ben presto la sua innata abilità a far ridere commuovendo. È così è per The Tuman Show, satira fantascientifica, ispirata parzialmente a un episodio di Ai confini della realtà e alla moda allora nascente di raccontare la vita in televisione attraverso i reality show. Attraverso la vita vissuta e trasmessa 24 ore su 24 di Truman Burbank, il film di Weir si sveste dei suoi abiti di pellicola cinematografica per indossare quelli di una denuncia sottile contro i moderni show televisivi rei di far perdere all’essere umano la propria intimità in nome di una sovraesposizione mediatica-social. Truman si fa dunque simbolo di quel conflitto dell’uomo deciso da una parte a rivendicare la propria libertà, e dall’altro a rimanere oggetto dell’istinto voyeuristico degli altri.

Man on the Moon, regia di Miloš Forman (1999)
L’arte del cinema come vettore dell’immortalità. Lo sguardo in camera che irride la morte, la sfida, sconfiggendola. Milos Forman prende l’anima di Kaufman e la traduce in pellicola. Il regista rompe ogni convenzione sin dalla comparsa dei titoli di testa per scrivere una lettera di profonda ammirazione a un artista incompreso nella sua genialità. A farsi portavoce di questo poema rivestito di cellulosa è Jim Carrey. Un’immedesimazione totale la sua, tanto che risulta difficile tracciare il confine che separa l’attore dal personaggio. Carrey supera il limite della mimesi per inscenare un ritorno dal regno dei morti. Non si tratta più di Jim Carrey che si traveste da Andy Kaufman, ma di un Andy Kaufman che rivive grazie a Jim Carrey.
Se mi lasci ti cancello (Eternal Sunshine of the Spotless Mind), regia di Michel Gondry (2004)
Amare fa male, ma il suo ricordo ancora di più. Tanto vale dimenticare, cancellare ogni segno mnemonico di risate, colori, sguardi complici, litigate, urla, rimorsi. Clementine e Joel erano una coppia; adesso sono entità separate, unite dalla forza del ricordo. Un filo che la donna ha deciso di recidere grazie all’azienda Lacuna e al suo progetto sperimentale di asportare il ricordo del proprio ex. Un cammino difficile da accettare al quale tenta di sottoporsi anche Joel, per poi tirarsi indietro appena in tempo; o forse no. Quello che Charlie Kaufman costruisce su carta e Michel Gondry su pellicola, è una struttura labirintica in cui perdersi tra i meccanismi cerebrali. I nessi logici e temporali implodono sfaldandosi in maniera non così dissimile da quanto compiuto da Alain Resnais nel suo L’anno scorso a Marienbad. Qui, come in Se mi lasci ti cancello, la ripetizione differente di sequenze, immagini, parole provocano una vertigine, mentre un uomo richiama alla memoria la storia d’amore avuta con una donna che, invece, non ricorda alcunché. Il resto si trasforma in poesia, all’interno di una nebulosa psichica dalla quale lo spettatore si lascia ben presto attrarre.
Jim Carrey
Number 23 (The Number 23), regia di Joel Schumacher (2007)
La vita di Walter Sparrow viene del tutto rivoluzionata quando riceve per il suo compleanno dalla moglie un libro intitolato “Il numero 23”. Da puro piacere, il romanzo diventa un’ossessione per l’uomo, il quale trova una serie di connessioni tra se stesso e il detective Fingerling, protagonista del libro. E le cose non potranno che peggiorare quando Walter metterà a repentaglio la propria e altrui vita perché deciso a emulare quanto dettato dalle pagine del romanzo.
Numerologia e ossessione, temi di fondo che tendono spesso ad andare a braccetto, contraddistinguono questo torbido thriller-drama che vira in modo fluido quanto inatteso verso decisi territori noir. Jim Carrey si riconferma attore istrionico, capace di affrontare il thriller con la stessa facilità con cui si immerge nelle commedie più stralunate. Ciò che più indebolisce un’opera altrimenti interessante è una sceneggiatura relegata ai temi più elementari del genere e non certo coadiuvata da un’infusione onirica mai veramente sviluppata.
Colpo di fulmine – Il mago della truffa (I Love You Phillip Morris), regia di Glenn Ficarra e John Requa (2009)
Labili i confini di genere che attorniano Colpo di fulmine – Il mago della truffa, film del 2009 diretto da Glenn Ficarra e John Requa. In equilibrio tra commedia, romance, grottesco e dramma, il film punta tutto sui suoi due cavalli vincenti: i protagonisti Ewan McGregor e Jim Caarey. Se il primo consolida il proprio status di attore poliedrico, è il secondo a brillare per intensità. Senza timore e paura di affrontare una produzione minore, l’attore si affida anima e corpo a quest’opera, che proprio per il suo status di film indipendente, riesce a enfatizzare le qualità interpretative di un attore fin troppo relegato nei panni dell’attore comico.