The Raid – Redenzione, di Gareth Evans, lo scoppiettante action indonesiano con Iko Uwais
Quello di The Raid – Redenzione (2011) di Gareth Evans (Gangs of London, Apostolo, Deathstroke) è certamente uno dei casi cinefili più interessanti dell’ultimo decennio. L’anteprima mondiale al TIFF 2011 in cui ha rapito critica e pubblico; l’acquisizione dei diritti da parte della Sony Pictures Classics; il titolo originale Serbuan Maut; e il sequel a tre anni di distanza intitolato Berandal (2014), eppure la genesi di The Raid – Redenzione non è stata delle più facili.
Dopo Merentau (2009), infatti, Evans iniziò a lavorare proprio su Berandal creando perfino un concept trailer con cui mostrare le doti fisiche di Iko Uwais e Yayan Ruhian. La cosa non ottenne l’impatto sperato, anche per via dell’imponente mole narrativa di Berandal che avrebbe richiesto un budget non indifferente. Evans decise così per qualcosa di molto più snello, semplice, un autentico high-concept.
Da una situazione di necessità, nasce il successo di The Raid. Un action che è anche survival horror, punto d’incontro creativo tra Distretto 13 (1976); Trappola di cristallo (1988); Hard Boiled (1992), nella cornice scenica dei bassifondi indonesiani: Evans che rilegge Carpenter, McTiernan e Woo. Un franchise totalmente originale ed economicamente competitivo, su cui, tuttavia, la Sony non sembra puntare molto. Messo in pausa il terzo capitolo dell’accoppiata Evans–Uwais, ai piani alti avrebbero dato l’ok per una sorta di sequel/reboot, con alla regia Joe Carnahan.
Nel cast di The Raid (disponibile su Prime Video) di Gareth Evans, figurano Iko Uwais (Red Zone, Stuber), Joe Taslim, Pierre Gruno, Ray Sahetapy e Yayan Ruhian.
The Raid: la sinossi del film di Gareth Evans
A Giacarta, una squadra d’assalto composta da 20 uomini della Polizia e guidata dall’appena esordiente Rama (Iko Uwais), il sergente Jaka (Joe Taslim) e il tenente Wahyu (Pierre Gruno), è pronta a fare irruzione in un condominio. L’obiettivo è uccidere il signore del crimine Tama Riyadi (Ray Sahetapy). Quella che sembrerebbe essere una normale operazione di routine, nasconde un segreto di corruzione nelle alte sfere. La situazione precipita rapidamente, la squadra verrà ridotta all’osso e Rama si troverà così quasi del tutto solo contro un intero battaglione. Dovrà farsi largo tra pugni e calci.
The Raid: cinema dinamico al servizio dello spettatore
A partire dalla presentazione del personaggio del Rama di Uwais, The Raid esibisce una cura meticolosa, attraverso montaggio alternato, con cui mostrarci le armi letali di cui dispone; la sua famiglia; la fervente religiosità, che suona quasi come una quiete prima della tempesta. L’andamento del racconto risulta così netto e immediato, in un contesto scenico di cui Evans accenna appena i caratteri essenziali. Ciò che interessa maggiormente al regista è la natura dei suoi uomini. Ponendo così enorme attenzione nella presentazione della squadra d’assalto e alla letalità del villain alla base del racconto che non disdegna di uccidere a sangue freddo a colpi di pistola; ma nemmeno a martellate. In appena poche battute introduttive la narrazione è pronta a dispiegarsi.
La regia di Evans è dinamica, come è dinamico il suo cinema. Per un racconto che vive di stacchi di montaggio; semi-soggettive; piani sequenza; panoramiche e campi lunghi con cui dare profondità al contesto del condominio giacartiano, l’autentica arena scenica, in una sorta di Nakatomi Plaza dell’era contemporanea ma anche di sorprendenti primissimi piani e particolari sul volto tumefatto del suo protagonista.
Evans e l’apparente monodimensionalità narrativa
Il problema di un racconto come The Raid è che di primo acchito potrebbe sembrare tipicamente monodimensionale, a partire dalla stessa sinossi e dall’evidente e classica dicotomia bene/male alla base del conflitto scenico. Eppure non è così, la bravura di Evans sta nel giocare proprio con l’apparente monodimensionalità, sfumando i contorni della sopracitata dicotomia, colorando il racconto di tematiche familiari e di corruzione nelle alte sfere. Alzando così la posta in gioco in modo esponenziale e vertiginoso in appena poche sequenze e con una manciata di espedienti narrativi “semplici”; un bambino che urla “Polizia”; le luci staccate; una scommessa con la morte da parte del villain; le imboscate.
Poche semplici azioni con cui depotenziare progressivamente la squadra d’assalto e – di riflesso – andando non solo ad accrescere ancora la solidità dell’intreccio e della posta in gioco, ma anche arricchendo di valore le azioni sceniche del Rama di Uwais, ora nell’uso dell’ingegno, ora in quello della forza.
Il valore di Rama si sviluppa così, nello spirito di sacrificio per salvare i propri compagni di squadra e in una determinazione oltre ogni immaginazione. Attraverso un simile sviluppo scenico, Evans riesce non solo a far fronte alla sopracitata monodimensionalità e fissità scenica – di fatto inevitabile in racconti simili – ma anche a contestualizzare e giustificare la scelta di una narrazione squisitamente action condita da una dose massiccia di “botte da orbi”. Ma quando arrivano è pane per i denti dello spettatore.
Le coreografie sono eccellenti e la regia dinamica di Evans diventa l’autentico punto di forza nella capacità di giocare con la scenografia, tra sedie spaccate, cadute dalle finestre, mura cadenti, e porte spezzate. Il resto è tutto merito della presenza scenica sontuosa di Uwais e nell’arte marziale del Pencak Silat.
Pura adrenalina per un racconto che è già cult
L’efficacia della semplicità racconto scenico di The Raid la si evince anche dalla sequenza finale. Nell’incontro e progressivo allontanamento dei fratelli, con cui Evans va a sottolineare come avere la stessa carne e lo stesso sangue non implica necessariamente la stessa bontà d’animo. Se con Merentau il talento di Evans poteva dirsi sbocciato, è con The Raid che è esploso definitivamente, rivelandosi come uno degli astri nascenti più interessanti del cinema contemporaneo.