RE-FLESH è l’ultimo horror antologico di Davide Pesca

(Recensione di Luciano Attinà)

Per poter parlare in maniera circostanziata del nuovo lavoro di Davide Pesca, RE-FLESH, prodotto dal regista stesso e da Massimo Bezzati (M.B. Productions), bisogna fare una premessa. L’horror è un genere che si è sempre caratterizzato per una peculiare natura estetica multiforme. All’interno del suo serbatoio si trovano prodotti autoriali, allegorie politiche, opere arthouse, prodotti che assecondano i gusti e le paure di un pubblico mainstream, lavori fieramente underground e film diretti amatorialmente che spingono sul pedale dell’eccesso.

Due sono i fattori che più colpiscono in questa caotica varietà di forme. Il primo è la fluidità: spesso i confini fra una categoria di prodotto e l’altra sono molto labili. Il secondo è la frequente identità fra spettatore appassionato e autore indipendente. Sin dagli anni ottanta infatti il proliferare di dispositivi di ripresa e montaggio relativamente a basso costo, come super8, hi-8, Betacam, ha dato la possibilità di esprimersi a più generazioni di cineasti/cinefili, cresciuti da riviste specialistiche come Fangoria e dalla visione ripetuta di opere d’exploitation in VHS. Il cinema che si è affermato fra questi nuovi filmmakers è un cinema estremo e citazionista che, per scelta, per necessità e a volte per incompetenza, si è trovato a dover riconfigurare il linguaggio classico filmico, entro un contesto tecnico-produttivo completamente altro rispetto a quello tradizionale. Ciò ha portato all’emergere di una nuova estetica dell’estremismo underground, tutt’ora diffusa fra gli appassionati e in cui gli standard tecnici e le regole di gusto (di ogni tipo) non valgono più.

re-flesh

Le vicende messe in scena in un simile cinema si dipanano da semplici tracce narrative piuttosto che da veri e propri soggetti articolati: si tratta per lo più di fornire un setting per mostrare scene splatter e gore sempre più esasperate, oltre che un bestiario umano relegato alle zone più marginali e deragliate della società.

La fotografia diventa a volte sorprendentemente barocca, altre volte così sciatta da ricordare i filmini di famiglia; il montaggio a sua volta varia dall’ipercinetismo espressivo ai tempi lunghi, degni delle più radicali teorie sulla capacità del cinema di restituire lo scorrere del tempo reale. Con la digitalizzazione del cinema, questo tipo di film ha conosciuto una maggiore diffusione, grazie alle possibilità distributive offerte dal web.

Ma ha anche subito una certa normalizzazione. La possibilità di creare, con maggiore semplicità e minore dispiego di mezzi, immagini canonicamente belle e corrette da un punto di vista tecnico, accompagnata da una certa tendenza alla standardizzazione dell’estetica DSLR, ha ridotto al minimo il livello di sperimentazione linguistica, appiattendo anche il gusto di molti cultori del genere sugli standard di Hollywood, o peggio ancora della serialità patinata di Netflix.

re-flesh davide pesca

RE-FLESH, film antologico in cinque episodi legati da un episodio-cornice, risulta allora un’opera interessante perché rifugge programmaticamente da questo appiattimento estetico  e nonostante sia girato in digitale, si rifà direttamente alla tradizione visiva dell’underground horror più radicale.

Le immagini offerte da Pesca sono prive di soluzione di continuità. Ogni inquadratura rappresenta un piccolo quadro espressionista a sé stante. Il regista cura quasi tutti gli aspetti del film, fra cui anche la fotografia e, consapevole dei limiti che questo può comportare, decide di non cercare la pulizia formale a tutti i costi. Piuttosto usa la sovraesposizione in termini espressivi, si diverte a variare i bianchi per rimandare a certo cinema giapponese degli anni novanta, usa colori acidi e brillanti, chiama in causa persino l’estetica del videogiornalismo e riesce ad alternare movimenti di macchina fluidi a shaky cam più confusionarie, così da creare un’esperienza surreale e lisergica per lo spettatore.

D’altronde l’intera opera di Pesca è caratterizzata da uno sguardo allucinato su un mondo grottesco, costruito sul concetto di corpo in divenire. Un corpo che non si lascia limitare da una forma definita e, in un tripudio di sangue e viscere, si trasforma, si espande, si innesta con l’animale, il macchinico e con l’alieno, fino a diventare qualcosa di completamente nuovo. Siamo insomma dalle parti del body horror più spinto.

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L’intero RE-FLESH infatti ha come tema quello della mutazione del corpo (principalmente femminile), catalizzata dallo stretto rapporto che l’uomo intrattiene oggi con la tecnologia. Sebbene il tono del film sia a tratti ironico, il film porta avanti un discorso di critica transumanista abbastanza esplicito: l’essere umano rischia di perdere la propria identità di specie, nel momento in cui entra in relazione simbiotica con la tecnologia, rappresentata per lo più dalla connessione con schermi, dispositivi di comunicazione, porte usb e innesti cibernetici.

Non è un caso dunque che quasi tutti gli episodi che compongono l’opera rimandino, in un modo o nell’altro, al cyberpunk giapponese. L’episodio cornice è un omaggio diretto a Rubber’s Lover (1996) di Shozin Fukui. Una particolare scena gore, ispirata a Naked Blood (1996) di Hisayasu Satō, viene proposta nel primo episodio, My Little Puppy, satira sulla virtualità delle relazioni affettive costruite nel metaverso.

Il Testuo (1989) di Tsukamoto Shin’ya è palesemente citato e reinterpretato, a cominciare dall’uso di una sporca fotografia in bianco e nero, nel secondo episodio – Electric Dreams – titolo che a sua volta rimanda a Dick, punto di partenza per tutta la letteratura dei Mirrorshades a venire. In questo episodio, abbellito dalle animazioni 3D di Samaang Ruinees, sta forse la chiave di lettura di tutta l’opera. Cioè l’idea che le tradizionali categorie interpretative della realtà vengano a cadere, all’interno dell’attuale paradigma cognitivo (post)moderno, caratterizzato da una continua fusione tra virtuale e reale. Di conseguenza le stesse categorie di organico e inorganico, umano, animale e robotico diventano le varie ramificazioni di un’unica percezione rizomatica/digitale del mondo, rappresentata dalla figura di un mostro tentacolare cibernetico. Questa metafora incarna la fine delle differenze ontologiche e vuole l’ibridazione come nuovo principio libidico/organizzativo dell’esistente.

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Tentacle, terzo episodio, approfondisce e porta alle estreme conseguenze quest’idea, attraverso un omaggio alle varianti cyberpunk del genere tentacle rape, come Wicked City (1987) di Yoshiaki Kawajiri e all’immaginario del Tentacle Master, Toshio Maeda. Il quarto episodio Angel 2.0, è l’unico episodio slegato dalla tematica prettamente cyber. Si rifà a un precedente lavoro di Pesca e riadatta a un contesto fortemente metafisico, un immaginario torture vicino sia a Hellraiser (1987) di Clive Barker che al classico Jigoku (1960) di Nakagawa Nobuo. L’ultimo episodio, Neovita, ritorna al cyberpunk, per mettere in scena una satira nei confronti del controllo che il potere politico-economico tenta di imporre sui singoli individui, soprattutto quelli più marginali, “riscrivendo” il corpo organico e addomesticando lo spirito, attraverso la tecnologia. Stavolta le coordinate su cui Pesca costruisce l’episodio privilegiano il cinema statunitense. Vengono citati esplicitamente il Cronenberg di Videodrome (1983), eXistenX (1999) e Inseparabili (1988) e le distopie sociali di Carpenter.

In definitiva RE-FLESH non è, forse, un film perfetto, a causa degli inevitabili limiti che una produzione a bassissimo budget, cimentandosi con questo genere, è costretta a mettere in conto. Tuttavia è un’opera pienamente compiuta nella sua ricerca estetica estrema, anche grazie all’ottima fattura degli effetti speciali, realizzati in maniera artigianale, nello stile dell’exploitation anni ottanta, dallo stesso regista. Inoltre è un’opera orgogliosamente di genere, che, al contrario di altri più blasonati titoli, non cerca, per darsi un tono, di imitare malamente le istanze culturali dell’elevated horror contemporaneo. Bensì affronta in maniera irriverente, folle e divertente alcune delle problematiche inerenti alla contemporaneità tecnologica. Lo fa senza pretese e con un’attitudine giocosa che gli permette di avere un respiro internazionale. Infatti il film si è già guadagnato una (meritata) distribuzione home video in U.S.A. e in Giappone.

Recensione a cura di Luciano Attinà