Abel Ferrara porta alle Giornate degli Autori di Venezia il film su Padre Pio con Shia LaBeouf

Quello di Abel Ferrara è un cinema mai stanco di ricerca e di discussione, mai fiaccato nel suo percorso di disperato rasserenamento. Opera dopo opera più complanare e cupo, è un dialogo sempre aperto con il pubblico, ma soprattutto con se stesso. Dialogo che può condividere i tratti della confessione, della supplica, del grido anche fra le pieghe di una composta narrazione, anche nel ricorso all’astrazione. Si pensi a Siberia (qui la recensione), ultimo atto di un’ideale “trilogia della vita” completata da Tommaso e Sportin’ Life, fra i primi contributi “in divenire” sulla pandemia da Covid-19. Una vita, in effetti, piena di tribolazione, in continuo andirivieni filmico fra realtà documentaristica e finzione, sogno e veglia – anche in sagace compresenza; o, ancora più, a Zeros and Ones, in cui i timori e la sterile ritualità da coronavirus amplificano, in una Roma tetra e minacciata, i contorni di una apocalisse oramai compiuta.

Dell’ultimo passo sull’orlo dell’abisso, forse sempre appena accennato e mai davvero compiuto, Abel Ferrara è da sempre il cantore prediletto: inserito o no nella più immediata attualità o calato in un futuro possibile – connubio che dona atemporalità alle sue ultime opere – questo cinema non si sottrae dal porsi dinnanzi a problemi vivamente contemporanei sperando di affermare un valore positivo, fosse anche il più fioco barlume (disperato, appunto), non sempre riuscendoci: in Tommaso, la figlia del regista che, in video, balla con serenità e innocenza sui titoli di coda; in Zeros and Ones, le immagini finali di vita quotidiana, di rapporti sociali e di fratellanza, del sole che riscalda l’aria.

Un film di Abel Ferrara

È proprio questa difficoltà nel trovare luce che grava su Padre Pio, annunciato un anno fa e ora sugli schermi delle Giornate degli Autori alla 79. Mostra del Cinema di Venezia. Nel recupero – all’inverso di quanto fatto di recente – del nostro non lontano passato, Abel Ferrara torna anche sulle orme di quel cinema di fede e redenzione che fece grandi le sue opere newyorkesi della prima maturità. Temi riproposti ciclicamente, come in continua affermazione – la stessa vita di Padre Pio, del resto, è stata indagata dal regista anni fa in un breve documentario intitolato Searching for Padre Pio (2015). Oggi, è un film difficile e personale scritto con lo sceneggiatore e scrittore napoletano Maurizio Braucci con cui Ferrara già firmò Pasolini, opera bifronte che ricostruisce le ultime ore del poeta e regista inscenando a margine una rappresentazione degli incompiuti Petrolio e Porno-Teo-Kolossal. Anche in Padre Pio è possibile apprezzare una alternanza di situazioni, ben diversa: da un lato, attimi della vita del Santo di Pietrelcina (Shia LaBeouf) prima della comparsa delle stigmate, al momento dell’arrivo presso San Giovanni Rotondo; dall’altro, ben altri frammenti di vita del paese, colto al momento cruciale delle elezioni del 1920, vinte dai socialisti contro una prepotente coalizione clerico-fascista (gli “Arditi di Cristo”). Se all’inizio del film si brinda al ritorno dei soldati dalla Grande Guerra, o si piange il loro sacrificio – un attimo cinematograficamente ben reso – presto si delineano, sempre più nette, le siderali posizioni politiche, e dunque le differenze di classe (si dice, a un certo punto, nella bottega del ciabattino: persino le scarpe da riparare sono disposte per condizione sociale), l’enorme precipitato di rancore, miseria e ira, soprusi e angherie perpetrate e subite, così fino all’eccidio, un fatto storico di cui poco si coltiva memoria (così la pensa, in recenti interviste, proprio il regista): quello del 14 ottobre del 1920, quando fascisti e carabinieri aprirono il fuoco sulla delegazione socialista che tentava di accedere in Municipio per esporre la bandiera rossa; è la drammatica sequenza finale del film.

padre pio

Padre e Pio

Sebbene negli anni si sia adombrata l’ipotesi che il Padre Pio potesse aver avuto un indiretto coinvolgimento nel grave fatto di sangue – cosa poi a più riprese smentita – il film sembra procedere senza mai interessarsi direttamente a questo aspetto: escludendo una sequenza di elargizione di denaro ai chierici da parte dei potenti e una – di maggiore forza espressiva e significato – di benedizione da parte dell’autorità religiosa delle armi con cui infine viene fatto fuoco sulla folla, nel film i due percorsi narrativi che strutturano il racconto procedono con una certa giustapposizione, rivolti di più a sé, come in lontananza; mentre in paese si lotta per il diritto alla libertà, nel monastero frate Pio è in continuo conflitto contro la tentazione, fiaccato nello spirito e nel fisico da violente visioni. Fra i due momenti prevale quello corale. Non solo perché, sommariamente, occupa maggiore spazio nel racconto, ma anche perché riflette tutta la naturale complessità della Storia, quella collettiva, prima ancora che personale. Se Santo Pio è chiamato ad affrontare crisi di fede e orrori mistici, il popolo è parallelamente impegnato contro l’orrore della coazione. La cristallizzazione di questi due piani trova un punto di contatto nella tensione, per così dire, emotiva: la rabbia, in modo particolare, sembra legare sia il percorso spirituale del frate, sia (ovviamente) le vicende che mettono in continua contrapposizione lavoratori e padroni, socialisti e fascisti. Agli antipodi, ovviamente, la disposizione verso il prossimo: se nel suo percorso spirituale, irto di ostacoli anche dovuti a una personalità complessa non esente da scatti d’ira, Padre Pio è capace di fare del bene spontaneo, anche riportando miracolosamente a nuova vita un infermo incapace di muoversi, al contrario totale sprezzo di quest’ultima si consuma quotidianamente in paese. Qui si distingue una riuscita sequenza di lavoro nei campi, durante la quale la morte di un bracciante, già reduce dalla guerra, è posta con coercizione sotto colpevole silenzio dai potenti datori di lavoro, fino alla negazione di ogni responsabilità, all’insegna della più bieca bassezza morale che trova conferma nel successivo massacro.

Della figura di Padre Pio restano le sequenze visionarie, rese graficamente come lucido incubo, pur in sostanziale ristrettezza di mezzi: Abel Ferrara non teme nel portare all’estremo il proprio bagaglio tecnico, non ha paura di saturare all’eccesso l’immagine, bruciandone non solo i contorni, alzando il suono di grida e musica fino alla massima tolleranza tecnica (“This film should be played loud” era il cartello iniziale di The Driller Killer); fuori dalle sequenze oniriche, allo stesso modo, non c’è particolare preoccupazione – come già accade nelle opere appena precedenti – per il rumore digitale che affiora nel buio sempre più bramato dalla sua fotografia, né per l’abuso dei ralenti, specialmente in prossimità degli stacchi di montaggio, come a voler dilatare ogni inquadratura prima di ogni necessario raccordo. È cinema, questo, fatto a ogni costo, che può comunque incontrare momenti di eccezionale resa, e di compostezza discreta: come accade nel raccoglimento della sequenza finale, una visione di Cristo disceso dalla croce per cingere in abbraccio Padre Pio ormai afflitto dalle stigmate definitive.

Nelle mani di Shia LaBeouf 

Delle interpretazioni, infine, poco si può dire, nel bene e nel male: Shia LaBeouf nei panni del Santo di Pietrelcina è in parte, e impiega tutto sé stesso con convinzione, dopo mesi di immersione tanto totalizzante da convincerlo, nella vita privata, alla conversione: abbracciare la fede grazie a questo film, ha dichiarato l’attore, l’ha salvato da pensieri suicidi e, possibilmente, da una carriera consumata. Non è sempre semplice, tuttavia, separare la fisicità dell’attore dal personaggio assai complesso di cui deve vestire gli abiti: non si attua in pieno, insomma, quella sospensione di incredulità grazie a cui è stato, per esempio, molto più semplice rivedere Pier Paolo Pasolini in Willem Dafoe. Sorprendente l’apparizione di Asia Argento nel ruolo – si evince dai titoli di coda – di un innominato “Tall Man” che tutto ha di diabolico e sinistro: dimessa e pallida, roca nella voce, si confessa a Padre Pio senza risparmiare pensieri osceni, e suscitando l’aspra (e decisamente sopra le righe) ira del Santo; entra in scena e ne esce quasi fluttuando, come un’ennesima, tormentata visione infernale. Un plauso incondizionato ci sembra doveroso per il casting dei volti del popolo, specialmente dei lavoratori della terra (ancor prima di quello dei fascisti e dei militanti socialisti): scavati, frustrati, stanchi, quasi tutti assai degni di un’inquadratura che vale più del dialogo. Fra loro anche Cristina Chirac, moglie del regista: meno genuina, certo, ma coinvolta nella parte.

Padre Pio si chiude, prima della visione mistica su cui pure cade una luce pesante, in cui i neri affaticano ancora una volta lo sguardo, con l’esposizione dei combattenti trucidati: sordo a facili accenni di consolazione, e lontano dalle possibilità d’invenzione offerte da un cinema di metafore e interiorità che pure si vanta di poter raccontare il presente, Abel Ferrara sembra non trovare appigli, ci pare, per dire di speranza futura, di calore; tuttavia sa, nei continui andirivieni di violenza e sofferenze che bene fissa in immagine, di poter dire qualcosa di mai finito, di perenne attualità.

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