La vita nel suo sommovimento: da TommasoSiberia

La recensione di Siberia (2020), il nuovo film di Abel Ferrara con Willem Dafoe, distribuito nelle sale italiane da Nexo Digital.

Gli appunti per un film fra i ghiacci, peraltro espressi graficamente e col tramite di una sentita astrazione, si rintracciavano già nella “fiction-non-fiction” di Tommaso – opera precedente di Abel Ferrara, di forte componente autobiografica – con ammiccamenti che, all’epoca forse un po’ sfuggenti, ora trovano aspetto di compiutezza. L’alter ego del regista (Willem Dafoe) si prodigava a cercare fondi per un nuovo film (con gli elementi, appunto, riscontrabili in Siberia), mentre nella cornice di una Roma assolata, al contempo ospitale e indifferente, si trovava fare i conti con ossessioni di un passato che incalza, paure e desideri da reprimere o combattere per il bene certamente di se stesso, ma ancor prima dei propri affetti, per i quali era spinto a un amore totale, preoccupato e vigile.

Con l’arrivo di Siberia, la confessione di Tommaso si fa quindi più sfaccettata di quanto a prima vista non paresse: mentre il film nel film è adesso un film effettivo, quest’ecce homo di Ferrara, carico d’umanità, tende con decisione a giocare su più livelli con gli elementi della finzione: quella scenica, che certamente ha elementi del reale – alcuni di questi innegabili e scarsamente filtrati (la routine, il lavoro, la famiglia, la propria casa, i problemi di ogni giorno) – sfuma in una realtà in cui tuttavia il non detto, ciò che non viene incluso nel mettersi a nudo a favore della storia e della macchina da presa, ha un peso notevole, specialmente in uno spazio domestico tangibile, vivo, esistente. È una narrazione verosimile o veritiera? Un dubbio che prende corpo con evidenza nelle battute finali: all’immagine allucinata di Dafoe crocefisso a Roma Termini si contrappone un video tenero, girato in verticale con lo smartphone, in cui la (vera) figlia di Abel Ferrara balla gioiosamente sulle note di Renato Carosone.

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Con la rinuncia alla logica della linearità, e agli elementi della realtà “domestica”, Siberia – presentato in concorso a Berlino poco prima del lockdown, e ora sul grande schermo in Italia grazie a Nexo Digital – non sembra tuttavia molto differente nell’impostazione del film precedente per ciò che riguarda la narrazione personale, e per il gioco di finzioni, benché con il “baricentro” ampiamente spostato; ancora dietro al volto di Dafoe non è difficile trovare una continuità nella confessione di Ferrara, trasportata su un piano che vorrebbe dirsi onirico, sebbene ci sia lucidità nella scelta degli elementi su cui volgere il pensiero (la riflessione sull’esistenza, di fatto, rimane ferma necessità).

Cambiano, tanto per cominciare, i contorni, ossia la geografia, che a nostro avviso e come si è intuito, molto ha da dire in entrambe le ultime opere del regista. Gli spazi di questa Siberia sono territori della mente, con l’impressione che nessuno spazio, seppur decisamente tangibile, sia reale: dalla Roma a tinte calde di Tommaso, in un fluire oscuro come di incubo, ci si ritrova catapultati in un limbo innevato, nel blu di un crepuscolo che sembra eterno. E di cui si percepisce l’oppressione anche quando, nel supplichevole peregrinare – alla ricerca del proprio io o per sfuggire all’orrore di un passato che incalza con tenacia, in quello che ha l’aria di un cammino espiatorio – ci si sposta di cornice in cornice: fra le sabbie del deserto, in un loft metropolitano, nel verde di una primavera di montagna. Non ci sono requie, e ogni luogo non ristora. Dalla concreta ospitalità indifferente dei luoghi di Tommaso, si giunge alla astratta inospitalità di Siberia, non però indifferente. Nel moto disperato di un uomo forse mortificato, chiamato ad affrontare i propri mostri e il proprio passato, si è spinti a un’empatia crescente, nell’inverso di quella stessa umanità che in Tommaso godeva di una rappresentazione concreta degli affetti, e che qui ha la forma di una solitudine irrimediabile, da scontare quasi come una pena.

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Cambia quindi anche il modo – anzi, il tempo – del dire di sé, rispetto a Tommaso: nel porsi domande circa il proprio ruolo di uomo, di figlio, di marito, di padre, la riflessione ci sembra post quem, come a recuperare qualcosa di cui si è perduto il contatto.

In Tommaso paure e furori erano sincronicamente calati nella vita nel suo farsi, possibilità che un tempo presente concede, il tempo delle scelte da compiere ancorché gravate da trascorsi non semplici, o non fieri; lo spazio del racconto in Siberia, pur frastagliato nei contorni e in continuo mutare col suo aspetto di allucinazione vivida, dà l’impressione invece di una parziale finitezza temporale, di qualcosa di già compiuto, oltre il quale tuttavia spingersi, anche irrazionalmente. La finitezza di quelle scelte che furono tempo presente e che sono ora un passato che si protrae come condizionamento, come zavorra, si contrappone, senza tempo, all’attesa e alla speranza (nemmeno troppo inconscia) di una redenzione – un tema, questo, decisamente non inatteso nel cinema di Ferrara.

Siberia, insomma, racchiude in sé il tempo della distruzione e il tempo della ricostruzione: un momento di luce che tuttavia dà l’impressione di allontanarsi passo dopo passo senza mai giungere, in un baratro perenne. D’altro canto, in Siberia gli errori e gli orrori da esorcizzare non sono visioni fugaci e racconti sofferti solo di un uomo in continua tensione, come in Tommaso; qui la tensione è universale e sotterranea, irradia ogni visione con cupezza, si insidia anche nei momenti di quiete apparente, per affiorare anche con pochi elementi (è agghiacciante il racconto bucolico di una gita in barca, col canto della strolaga che d’improvviso sembra il grido di una donna cui viene fatto del male) in una rappresentazione disperata di una vita nei suoi strepiti e nei suoi contraccolpi più severi. Dalla quale, in conclusione e giustamente, non abbiamo risposte, né quindi consolazione, benché resista un moto di fiducia – insita, in fondo, nel moto stesso intrapreso fra spettri e tormenti. Con la struttura aperta del racconto, a quale via condurrà lo strenuo cammino che è stato iniziato, non è dato sapere.

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