La transizione da cinema muto a sonoro si tinge di musical, Cantando sotto la pioggia di Stanley Donen, con Gene Kelly, Debbie Reynolds e Donald O’Connor 

Era il 1927 quando Hollywood si “accorse” del sonoro. Della possibilità di realizzare non più film muti per lasciar posto al parlato; accantonando così la pantomima iper-espressiva e i cartelli, per lasciar posto al recitato. A inaugurare la rivoluzione cinematica fu Il cantante di jazz (1927) di Alan Crosland – oggi celebre, più che altro, per la blackface di Al Jolson – ma che resta tra le più importanti opere del decennio; specie considerandone l’epoca di riferimento, ben più “flessibile” a certi concetti socio-culturali. Circa venticinque anni più tardi, Hollywood rievocò con nostalgia quel periodo di transizione realizzando, tra Billy Wilder e Stanley Donen, opere come Viale del Tramonto (1950) e Cantando sotto la pioggia (1952): le due facce della proto-nostalgia filmica hollywoodiana.

Perché se oggi il trend culturale della nostalgia rappresenta la pietra angolare di produzioni (tele)filmiche come Stranger Things (2016- in onda); Ready Player One (2018); C’era una volta a… Hollywood (2019), in parte lo si deve alle opere di Wilder e Donen. Raccontando così la transizione tra muto e sonoro ora con un malinconico-grottesco tra partite a carte con Buster Keaton, camei di Cecil B. DeMille e drink serviti con rassegnazione dal maggiordomo Erich Von Stroheim; ora attraverso un vivace musical condito da momenti da slapstick comedy.

I titoli di testa di Cantando sotto la pioggia

Nell’incapacità di lasciare andare il vecchio mondo, sino al raggiungimento della psicosi violenta dell’impareggiabile Norma Desmond di Gloria Swanson, si cela la vivace anima filmica di Cantando sotto la pioggia; dell’impossibilità – in un primo momento – ad accettare il cambiamento per i Don, Cosmo e Kathy di Gene Kelly, Donald O’Connor e Debbie Reynolds per poi abbracciarlo; quasi come fosse un’opportunità d’evolversi.

Un’insolita lavorazione tra febbre alta e insulti

L’idea alla base de Cantando sotto la pioggia venne al produttore Arthur Freed, a capo di quella che alla MGM veniva chiamata Freed Unit. Per decadi infatti, Freed è stato il responsabile della realizzazione dei musical, nonché la mente dietro a opere come Incontriamoci a Saint Louis (1944) e Gigi (1958) di Vincente Minnelli. Consisteva infatti, in un musical contenente quello che in gergo s’intende come back catalogue (repertorio storico) delle canzoni dello stesso Freed e Nacio Herb Brown; furono loro infatti a curare la colonna sonora. Il produttore chiamo così in causa gli sceneggiatori Betty Comden e Adolph Green per realizzare una sceneggiatura che facesse da collante degli elementi canori.

Per via del tono di quest’ultimi, Comden e Green pensarono che il modo migliore per portarle in scena fosse una narrazione ambientata nella fase di transizione tra cinema muto e sonoro. Ponendo così le basi del racconto su di un attore romantico da “cappa e spada” con un passato da vaudeville che prova a sopravvivere all’evoluzione reinventandosi “musicale”: il perfetto personaggio per Gene Kelly. Solo che l’interprete di Un giorno a New York (1949), in quel periodo era impegnato sul set de Un americano a Parigi (1951) dello stesso Donen; dovettero così aspettare la fine delle riprese per poterlo coinvolgere, assieme al cineasta americano.

Gene Kelly e la celebre scena che dà il titolo al film

La lavorazione è passata alla storia per la celebre scena che dà il titolo all’opera. Quella Singin’ in the rain entrata di diritto nella storia del cinema di cui si narra che Kelly riuscì “a portarla a casa” con un solo ciak. Non fu affatto così. Ci vollero quasi tre giorni per realizzarla in effetto notte; le continue prove sotto la pioggia provocarono febbre alta e spossatezza all’attore de E l’uomo creò Satana! (1960).

Oltre a questo, la lavorazione di Cantando sotto la pioggia è celebre per il rapporto tra Kelly e la Reynolds tutt’altro che idilliaco. Per l’interprete de Tammy fiore selvaggio (1957), l’opera di Donen era il primo grande ruolo hollywoodiano. Si narra infatti che Kelly – noto perfezionista – fosse particolarmente duro con lei per via della sua poca esperienza nel ballo; fu in tal senso provvidenziale l’aiuto di Fred Astaire che le diede delle lezioni. Per portare a casa l’altrettanto celebre sequenza di Good Mornin’ ci vollero quindici ore, e i piedi della Reynolds – sanguinanti a fine giornata – dovettero essere medicati; lei stessa, un paio d’anni più tardi dichiarerà:

Cantando sotto la pioggia e il parto sono state le cose più dure che ho fatto nella mia vita.”

Cantando sotto la pioggia: la sinossi del film di Stanley Donen

Hollywood, 1927. La prima di Canaglia Reale è un successo. Don Lockwood (Gene Kelly) e Lina Lamont (Jean Hagen) sono il duo artistico più famoso del cinema muto. I rotocalchi raccontano di un amore dentro e fuori lo schermo, ma non è così. Don non sopporta la sua partner sullo schermo. Nonostante questo, Lina è convinto che sia innamorato di lei.

Al momento della lavorazione de Il cavaliere spadaccino, accade l’impensabile; il cinema sonoro ha definitivamente sfondato al botteghino. Questo costringe il produttore R.F. Simpson (Millard Mitchell) a trasformarlo in un film parlato. Il risultato è un fiasco totale allo screen test; aggravato dalla voce di Lina che si scopre essere insopportabilmente acuta. Don inventa così uno stratagemma assieme al suo migliore amico Cosmo Brown (Donald O’Connor): trasformare Il cavaliere spadaccino da “parlato” a “musicale”, mutandone il titolo ne Il cavaliere della danza; doppiando infine, Lina, con la voce di Kathy Selden (Debbie Reynolds). Sarà l’inizio di una girandola di eventi meta-cinematografici.

Gene Kelly e Debbie Reynolds in una scena de Cantando sotto la pioggia

Cantando sotto la pioggia: i contrasti tematici dell’opera di Stanley Donen

Vive di contrasti tematici la narrazione meta-cinematografica di Cantando sotto la pioggia. A partire dalla sua ratio filmica della non arrendevolezza al sonoro da parte delle stelle del cinema muto raccontate però attraverso un’opera musicalmente sonora, recitata interamente di pantomima iper-espressiva dai suoi agenti scenici. Un piccolo e necessario cortocircuito narrativo che è però l’insita forza alla base del racconto, con cui Donen realizza un affresco industriale della Golden Age; sfruttando però le peculiarità del suo tempo in un continuo gioco tra cinema classico e moderno.

Intenti autoriali meta-filmici che prendono forma a partire dalla sopracitata première in apertura di racconto. Donen disegna infatti i contorni della sua feroce – ma delicata nei modi – critica sociale tra piani piani; piani medi; incisive zoomate di folle infuocate di luoghi comuni tra svenimenti e matrimoni lampo (e di convenienza) nel jet-set. Poi una digressione temporale imperniata tutta negli agenti scenici di Kelly e O’Connor – funzionale nello sviluppo del background caratteriale attraverso cui il cineasta de Sciarada (1963) gioca ancora con i contrasti tematici alla base del racconto.

Gene Kelly, Debbie Reynolds e Donald O'Connor in una scena de Cantando sotto la pioggia

Il tono comicamente brillante della sequenza – nel suo vivere della cocente opposizione tra eventi raccontati/mostrati – dispiega infatti uno speranzoso coming-of-age da Sogno Hollywoodiano covando però, al suo interno, una forte carica drammatica tra carpe diem e sodalizi artistici. Giocandovi infine nell’ancora più forte dicotomia tra apparenza e realtà. A partire dall’agente scenico della Kathy della Reynolds, ballerina di varietà che si presenta come attrice di teatro e che trova fortuna come doppiatrice di un’attrice di film muti dalla voce sgradevolmente non-hollywoodiana.

Meta-cinema ed evoluzione: Da Canaglia reale a Il cavaliere della danza

In tal senso, nonostante il suo ruolo da villain scenico e abbastanza “leggero” e frivolo larga parte delle fortune di Cantando sotto la pioggia stanno nella Lina di una formidabile Hagen. Il cineasta de Cenerentola a Parigi (1957) infatti, racchiude al suo interno l’impossibilità ad accettare la transizione in atto. Rendendola così simulacro dell’anima meta-filmica del racconto e al contempo rilettura in chiave comica dell’insito malessere nostalgico della wilderiana Norma Desmond.

Si sviluppa così il racconto nella sua marcata componente meta-cinematografica tra “cinema nel cinema”, lavoro sul set; oltre che implicite rotture di quarta parete compiute dallo sguardo in camera di Kelly. In una crescita che il dispiego dell’intreccio scandisce, lungo tutto l’andamento spedito, delle proiezioni filmiche della narrazione. Il progressivo passaggio dal muto al sonoro viene infatti scandito da Canaglia reale a Il cavaliere spadaccino sino a Il cavaliere della danza; quasi come a dividerle, impropriamente, in macro-sequenze narrative.

Gene Kelly

Nel mezzo l’evoluzione meta-filmica del racconto e di come Hollywood seppe far fronte alla rivoluzione posta in essere da Il cantante di Jazz. Elemento che Donen sfrutta a livello narrativo, accentuando sempre più la componente comico-brillante tra errori di sync e “di microfono” per avvolgerla attorno alla connotazione musical; inserendovi infatti elementi canori dal linguaggio filmico più complesso, perfino pionieristico del videoclip moderno, e dalla regia in grandissimo stile.

Un lavoro formidabile quello del cineasta de 7 spose per 7 fratelli (1954) che è audace nel giocare con l’inerzia del racconto saggiandone le atmosfere; passando così da una regia intima e dinamica di piani medi di walk & talk e primi piani, a campi lunghissimi che vivono di profondità di campo ad ampio raggio.

“A ogni festa si mostra un film: è legge a Hollywood”

In una climax che consolida l’evoluzione del sonoro facendosene beffa tra romanticismo e ilarità, Donen consegna ai posteri un’opera di rara brillante fattura. Intelligente, comica, profonda; capace di veicolare, per mezzo dell’insita vivacità di Moses Supposes, e Make ‘Em Laugh che occulta – facendo soltanto trasparire – una sferzante critica al sistema produttivo hollywoodiano. Elementi di cui il cineasta de L’erba del vicino è sempre più verde (1960) ci dà chiari indizi già dall’apertura, ma soprattutto nello scambio dialogico del primo incontro tra Don e Kathy; condensando così, in forma ironica, quasi trent’anni di cinema industriale:

[…] No, non vedo molti film io. Visto uno si sono visti tutti. […] Il cinema è divertente per le masse; ma le personalità dello schermo mi lasciano del tutto fredda: non dicono una parola, non recitano, non fanno che smorfie! Mi capisce, no? […] Recitare è parlare, declamare parole importanti. Shakespeare, Ibsen.

Quasi sessant’anni dopo l’intera ratio filmica di Cantando sotto la pioggia verrà riletta in chiave opposta da The Artist (2011). L’opera di Michel Hazanavicius con protagonisti Jean Dujardin e Bérénice Bejo infatti – vincitore dell’Oscar al Miglior film nel 2012 (cosa di cui Donen non poté mai fregiarsi nel 1953) – inverte la polarità dell’inerzia della ratio. Realizzando così un’opera sulla sopracitata transizione, la cui trovata narrativa non è tanto un film musicale, bensì un film muto attraverso le estetiche del cinema degli anni venti. Una conferma quindi, di riflesso, dell’importanza nelle decadi di Cantando sotto la pioggia e della sua pionieristica proto-nostalgia filmico-musicale firmata Stanley Donen e Gene Kelly.