
“Sono Judy Garland per un’ora a sera, il resto del tempo sono parte di una famiglia“
Da qualche parte oltre l’arcobaleno c’è quel sentimento di pace che tutti cerchiamo di raggiungere, una calma fatta di luce dove non esiste dolore e i problemi si fondono come gocce di limone. Tutte cose che Judy Garland ha cercato nella sua breve ma sfolgorante esistenza, senza mai trovarle.
Dopo la presentazione allo scorso TIFF, il regista teatrale Rupert Goold approda alla 14ma Festa del Cinema di Roma con il suo secondo lungometraggio, Judy, biopic sull’icona d’intere generazioni Judy Garland. Ironica, fragile, libera e fuori da ogni schema: Judy è interpretata da una Renée Zellweger magistrale, acclamata a Toronto con una standing ovation di 15 minuti, terminata con l’attrice in lacrime per la commozione.
In 15 years at #TIFF I have never seen a standing ovation like the one for Renee Zellweger at JUDY. I started this about a minute into it and it only stopped because she made us. pic.twitter.com/NGXWLMbDxm
— Jenelle Riley (@jenelleriley) 11 settembre 2019
Il film, che arriverà in Italia il 16 gennaio 2020 distribuito da Notorious Pictures, racconta gli ultimi mesi di vita della Garland (nata Frances Ethel Gumm), scomparsa a soli 47 anni nel giugno del 1969, soffermandosi in particolar modo sull’aspetto privato; il rapporto intimo con i suoi bambini Joey e Lorna (con una fugace apparizione di Liza Minnelli, all’epoca 22nne, primogenita avuta con il secondo marito Vincente Minnelli) e i suoi ultimi spettacoli al Talk of the Town di Londra.
La fiamma vivace dell’artista, ormai in bancarotta, si è indebolita, tanto da essere diventata flebile e delicata; da qui, il dramma del dover accettare l’ingaggio londinese e lasciare i figli a New York.
Sebbene il film sia stato tratto dallo pièce teatrale di Peter Quilter “End of The Rainbow” (portato in Italia nel 2013 con Monica Guerritore nel ruolo della Garland), Goold ha voluto concentrarsi meno sulla figura di artista e più su quella di donna; cresciuta privata di amore materno, buttata sul palcoscenico fin da giovanissima, assieme alle due sorelle, e vittima del risentimento di gelosia da parte della madre (attrice del vaudeville) verso questa figlia d’indubbio talento.
Judy è la parabola discendente di una grande artista che cercava di rinascere dalle ceneri dei suoi fallimenti, l’ultima testimonianza di una vita distrutta da alcool e psicofarmaci, simbolo di una vecchia Hollywood eticamente feroce anche nei confronti dei suoi enfant prodige.
Il film si apre con la Garland adolescente sul set dell’eterno capolavoro di Victor Fleming, Il Mago di Oz, e per gran parte del tempo questi flashback hanno la funzione narrativa di decodificare il comportamento della Garland adulta ma non solo…
Il meticoloso montaggio di Melanie Oliver (Les Miserables), infatti, porta la storia su un secondo piano, quello del rinvigorire la denuncia contro il potere di Hollywood, incarnato nel film di Goold da Louis B. Mayer, padre padrone della MGM, nonchè tra i fondatori dell’Academy. La sua figura titanica è quella di un uomo che ricatta una giovane Judy, stanca di una vita di dinieghi sotto i riflettori dei set, e diventa in parte fautore dell’instabilità emotiva che accompagnerà la ragazza per tutta la vita, fino al triste epilogo.
