All’anteprima de L’Urlo, remake del classico corto del 1966 di cui vi abbiamo parlato qui, abbiamo avuto il piacere di intervistare Luca Magri e Francesco Barilli. Ecco cosa ci hanno raccontato il protagonista e il regista del nuovo corto.
INTERVISTA A LUCA MAGRI
Partiamo con una variante della domanda più ovvia possibile…
La parte finale – in entrambi i corti la più significativa – dipende del tutto dalla capacità di comunicare uno stato d’animo attraverso lo sguardo e l’espressione. Nonostante il cinema sia diverso rispetto a 50 anni fa, il messaggio da veicolare è lo stesso. Che tipo di ispirazione ti ha dato avere come regista l’interprete originale di Paolo Caren?
Francesco (Barilli, ndr) mi ha detto di non ispirarmi al vecchio corto, di andare sullo spontaneo e sul personale. Sono due cose uguali, ma diverse per epoca: allora era fantascienza vera, adesso è quasi un documentario.
Io e lui poi ci conosciamo da quando ero bambino e abbiamo già fatto due film insieme (Il Solitario e La Casa Nel Vento Dei Morti, entrambi di Francesco Campanini) e abbiamo molta confidenza. Mi ha detto di rifarlo in un modo attuale.
Oltre che protagonista sei anche produttore del corto. Qual è la “storia produttiva” del remake e com’è stata affrontata la sfida di rimettere mano a un classico di genere?
A dire la verità ero scettico all’inizio, perché – in Italia il problema è questo – un cortometraggio non si riesce a distribuire. Io ho prodotto un paio di film insieme ad Antonio Amoretti e Pietro Corradi, che sono i veri produttori di questo corto, e li abbiamo potuti distribuire perché appunto erano lungometraggi di genere e avevano un loro mercato. Per un corto non è così: essendoci un minutaggio limitato non puoi metterlo sul mercato… a meno che non lo faccia uno come Steven Soderbergh, ecco!
Alla fine dei conti abbiamo detto “vediamo come va”, ma mentre lo realizzavamo ha attirato l’attenzione di tante persone, quante ne attirerebbe un film. Il motivo è che, essendo appunto il remake di un corto andato a Cannes, considerato di culto e che ha coinvolto nomi importanti, ha suscitato curiosità e interesse. Ecco perché sono sicuro che questo cortometraggio avrà anche più visibilità di un film “vero”.
La sfida è stata questa: vediamo se possiamo piazzarlo ai festival e a farlo girare.

Non solo produttore e attore, ma anche sceneggiatore e regista. Dopo l’esordio da regista con Il Vincente hai qualche altro progetto in cantiere?
Assolutamente sì. Sto scrivendo un altro film e spero di metterlo in piedi entro un paio d’anni…
Sono passati 2 anni e mezzo da Il Vincente: contando che la media di solito è di un film ogni sette anni per gli autori italiani, famosi o meno, quindi va bene così!
A bruciapelo: dicci quale film…
… ti ha fatto innamorare del cinema;
… non puoi rinunciare a rivedere in continuazione;
… secondo te tutti dovrebbero vedere su grande schermo.
Il film che mi ha fatto innamorare del cinema è L’Armata Delle Tenebre. Credo di essere conosciuto, più che come attore, come il più grande fan di Bruce Campbell in Italia.
Quello che rivedo in continuazione, a parte appunto L’Armata Delle Tenebre, è Vivere E Morire A Los Angeles, di William Friedkin.
Quello da vedere assolutamente su grande schermo è Il Cacciatore di Michael Cimino: tutti dovrebbero vedere un classico del genere almeno una volta nella vita.

INTERVISTA A FRANCESCO BARILLI
L’Urlo è un classico: in un cinema che ancora non aveva la quantità di opere distopiche di oggi, quel corto creava una mitologia tutta sua. La parte finale, tutta incentrata sullo sguardo del protagonista, è il cuore pulsante dell’opera.
Com’è stato dirigere un altro attore in quegli stessi panni?
Il problema qui non è tanto quello di dirigere l’attore. Piuttosto il problema è che io ho rifatto lo stesso film in tutt’altro modo, ma la storia è sempre quella. Ho avuto delle difficoltà perché, essendo stato protagonista e aiuto regista in quello del 1966, quando giravo il remake continuavo a vedere sempre quello vecchio. Pensavo: “Ma cosa sto facendo?”
Abbiamo dovuto camuffarlo tutto, ho preso la fotografia e l’ho distrutta: dovevo allontanarmi il più possibile, assolutamente. E’ stato problematico per me.
C’erano dei momenti di vera rabbia, non capivo cosa stessi facendo. La sfida era di allontanarmi sempre di più mantenendo però il sonoro originale del vecchio corto. Non c’era altra scelta: quelle voci, quel timbro, erano davvero “da cinema”, non come quelle di oggi.
