LA RECENSIONE DI THE FOUNDER, IL FILM DI JOHN LEE HANCOCK
CON MICHAEL KEATON

Fatelo per l’America: McDonald’s può diventare la nuova chiesa americana”. Con queste parole Ray Kroc (Michael Keaton) convince i fratelli Dick e Mac McDonald (John Carroll Lynch e Nick Offerman) ad entrare in affari con lui per portare i loro hamburger-espressi (e con essi gli “archi dorati” dell’arcinoto logo) dalla remota San Bernardino in California ai quattro angoli degli Stati Uniti. La parabola di Kroc, a dispetto del titolo – The Founder – non è quella del fondatore della catena di fast food più famosa al mondo, bensì dell’uomo che ha avuto l’intuizione di esportare un modello vincente e colonizzare ogni angolo del pianeta. 

The Founder

Diretto da John Lee Hancock, The Founder racconta dunque l’ascesa di Ray all’insegna del motto “niente al mondo può sostituire la perseveranza”, mantra ribadito anche nel finale, con Keaton che sfonda la quarta parete e “catechizza” lo spettatore. La sua parabola è talmente inarrestabile che neanche le nuvole possono stagliarsi su quello che oggi è un impero su cui effettivamente non tramonta mai il sole; in The Founder infatti non piove mai. Non piove lungo la route 66 da cartolina attraversata in auto da Ray Kroc, non piove nei flashback in cui i fratelli McDonald raccontano la genesi (da intendersi quasi in senso biblico) della loro avventura commerciale, e non piove, ovviamente, neanche all’apertura dei nuovi punti vendita nei più remoti angoli degli Stati Uniti. Ma se il sole dorato che accompagna i flashback di Mac e Dick è una sorta di benedizione dell’american dream, d’altra parte la luce che inonda l’inaugurazione di ogni nuovo McDonald’s aperto da Kroc (introdotto ripetutamente da una didascalia che ci rammenti le coordinate geografiche di un non-luogo impossibile da identificare nello spazio) sembra più assurgere ad aura di invincibilità. A dispetto delle (poche) difficoltà che Ray incontrerà sul suo cammino, che si tratti dell’ipoteca sulla casa nascosta alla moglie (Laura Dern) o del banchiere che gli nega un aumento del credito, il “ragazzotto dell’Illinois” riuscirà infatti sempre a cavarsela egregiamente. Le vittime sacrificali della sua ambizione (“l’essenza della vita”, dice lui) saranno proprio i fratelli McDonald, troppo fedeli a un modello di business “pensato per le famiglie”, che dice no alla sponsorship della Coca-Cola e ai frappé in polvere; a posteriori, potevamo intuire che avrebbero avuto vita breve. 

The Founder

Una storia di capitalismo cattivo quindi, contrapposto a quello “buono” dei fratelli McDonald, in cui più passano i minuti più la figura di Michael Keaton assume i contorni del villain. Quello che colpisce è che, mentre perpetra il tradimento del “sogno americano” più volte invocato nel corso della pellicola, Ray non sembra quasi mai provare rimorso, fino al mefistofelico pre-finale, in cui (spoiler) Dick e Mac vengono liquidati con un lauto assegno e privati, da contratto, della possibilità di utilizzare il nome McDonald’s per la loro attività. Perché, come spiega Ray a uno di loro, è proprio il nome “l’unica cosa che rende McDonald’s speciale: sa di America”. E per i pochi che non siano entrati in un McDonald e vogliano avere un’idea del sapore dell’America, consigliamo la visione di Supersize Me.

Giuseppe Bargagnati

Per sapere di più sulla nostra collaborazione con Bianconiglio-Lab vi rimandiamo alla recensione de La Tigre Bianca