Avete mai incontrato una tigre bianca? Il premio nobel per la letteratura Elias Canetti scrisse ne La provincia dell’uomo (1973) “Che cosa sia una tigre, lo so veramente solo da quando ho letto la poesia di Blake“. Un pensiero che si può facilmente riportare a La tigre bianca di Ramin Bharani, film tratto dall’omonimo libro scritto da Arvid Adiga e prodotto da Netflix, su cui è disponibile dal 22 gennaio (2021).

Balram, un umile servitore che fa parte della casta più povera, (quella degli uomini “dalla pancia vuota”), riuscirà a capovolgere le sorti del suo destino diventando un abile imprenditore. Muovendosi come una tigre, non si farà mai sfuggire il suo attimo di salvezza. Animale totemico, la tigre bianca, con la sua possente natura felina, porta in sé la fascinazione e il pericolo; così sarà anche per Balram, protagonista assoluto di una storia incredibile che potrebbe racchiudere banalmente la storia di molti indiani. Se Canetti può comprendere cos’è una tigre solo attraverso le parole di Blake, così Balram attraverso la storia della sua famiglia ci racconterà la ‘verità’ sull’India. Ramin Bahrami ci offre un protagonista narratore intradiegetico della storia, un narratore che ci prende per mano e ci trasporta nell’India moderna, contraddittoria e complessa. Nelle prime battute del film, un fermo immagine sul primo piano di Balram (Adarsh Gourav) sembra anticipare e ribaltare il cuore del film. I suoi occhi e la sua espressione tutto sembrano, meno che rimandare quelli di una tigre bianca “l’animale che si mostra una sola volta ogni generazione”. Eppure in questo contrasto vige un’anticipazione netta della trasformazione affrontata dal protagonista nel corso del film: da vittima a carnefice, da servo a padrone, da pollo a tigre.

la tigre bianca

Ma cosa significa in India nell’epoca moderna essere un servitore? Balram con il suo atteggiamento accondiscendente verso i suoi padroni, il sorriso stampato, il suo servilismo oltranzista ci fa capire che la questione è talmente radicata nella sua cultura, che è quasi come se gli pulsasse nel sangue. La sceneggiatura ci offre diverse metafore per comprendere al meglio l’universo tristemente feroce in cui dobbiamo calarci per respirare a pieno la vita di Balram, portavoce della maggioranza della popolazione indiana. Tra queste la migliore risulta essere quella sulla “stia per polli”, reiterata spesso e non a caso nel corso del film. I polli ‘vedono e sentono l’odore del sangue’, sanno che il destino di miserrima morte toccherà anche a loro eppure non si ribellano e non provano a scappare. Un meccanismo che riprende e riporta il rapporto tra servo e padrone, capace di superare l’odore forte della morte e della paura per enfatizzare il rapporto di lealtà. Il nostro eroe, un misto tra ingenuità e voglia di cambiamento, dovrà attingere a tutta la sua intraprendenza per liberarsi di dogmi e preconcetti per ragionare autonomamente e porsi delle domande. Come un animale, tra denti sporchi e abiti sudici, Balram si muoverà seguendo la scia di domande a cui è costretto a porsi anche rispetto a ciò che i suoi ‘padroni’ dal piglio liberal-democratico (Ashok, interpretato da Rajkumar Yadav, e Pinkie Madam, un’ottima Priyanka Chopra), sembrano volergli mettere di fronte. Una sfida, quasi per migliorarsi, o liberarlo, ma che in realtà si rivela una pantomima che fa capolino all’ennesima versione del vecchio mito dell’imperialismo, dove le classi più agiate devono entrare in contatto con le classi povere per sentirsi meglio, sfruttandone la disponibilità per poi tornare alla loro vita appartata nei piani alti. Il merito di Balram è quello di riuscire a trasformare la rabbia in spinta propulsiva verso una vita diversa, verso una nuova carriera. La camera da presa ci mostra senza difetto tutte le contraddizioni di una nazione: l’India, un territorio proibito in cui il sacro e l’osceno si sovrappongono, nonché “la più grande democrazia del mondo” come ripetuto spesso da Ashok e Balram. una dichiarazione che, a ogni ripetizione, si farà sempre più anacronistica nel suo crescendo sinfonico, fino a divenire ridicola nel tono sarcastico di chi la pronuncia.

La tigre bianca

Sarà così che Balram compie il sacrificio estremo di disumanizzarsi. “Serve un mostro, un depravato” o meglio serve una tigre ma, non una tigre qualunque, una tigre bianca per uscire dall’impasse di una vita di un cotto a metà. Per sua stessa ammissione la storia a un certo punto si fa più tetra e il sottotitolo del film Eat or get eaten up assume il suo reale significato, trasformandosi in azione, un’azione estrema e non condivisibile, ma che le sorti della trama della vita di un ragazzo facente parte della casta dei pasticceri non sembrano portare da un’altra parte.

Il tradimento che subisce il nostro eroe rivela i contorni della sua fragilità come individuo e lo costringe a fare i conti con la miseria e la disperazione che lo circondano che lo toccano da vicino più di quanto immaginasse. Non importa quanto sarà umile, modesto o leale; sarà sempre un servitore. Non dovrà scendere negli inferi perché in realtà ci ha sempre vissuto, ma capirà finalmente che la stia per polli ha l’odore dell’alcool che obnubila le velleità, il rumore fragoroso del traffico di chi si affanna per i propri padroni misto alle cantilene dei mendicanti che hanno perso il lume, il colore grigio dei cumuli di monnezza e le risa senza senso di un uomo sdentato. La macchina da presa farà il resto, offrendoci la fotografia decadente di un paese dai grandi contrasti dove “i ricchi nascono con opportunità che possono sprecare ma un uomo povero?”. La sensazione è che il regista e sceneggiatore di origini iraniane riesca nell’intento di descrivere per immagini il libro del suo amico Arvid Adiga vincitore del Booker Prize 2008. I due – regista e lo scrittore – sono amici, si conoscono dall’università. Probabilmente, i due hanno anche deciso di tirare le orecchie a Danny Boyle, (si pensi alla frase “Ero bloccato nella stia per polli, non dovete credere che esista un quiz da un milione di rupie che ti possa aiutare”) che, con il suo The Millionaire del 2008 ci ha fornito una versione dell’India più vicina alla favola che alla realtà.

Le parole si fondono con le immagini vivide e a tratti livide, rese dalla fotografia per lo più blu/violacea, raramente luminosa, dell’italiano Paolo Carnera (Favolacce), come fossero contusioni nel corpo di un paese popolato da miseria e idee geniali. La musica di Danny Bensi e Saunder Jurriaans dona un aspetto seducente all’opera e ne scandisce il ritmo. Frenetici battiti di mano (simboli di un’incapacità di restare fermi), rendono il pulsare del sangue nelle vene e la sensazione di bruciare dentro quando si vuole disperatamente prendere in mano il proprio destino. Intrecciato a melodie suggestive, che lasciano in bocca e nelle narici il sapore e l’odore della vera India, il concetto musicale si fonde ed esalta le qualità della pellicola, rendendo la giusta suggestione a un film dove per metà dei dialoghi si parla Hindi. Una scelta insolita, questa, ma che riesce a donare un elemento di realismo in più senza minimamente interrompere lo scorrimento della storia. L’attore e cantante Adarsh Gourav ha saputo dare le giuste sfaccettature al suo personaggio che, da umile servitore senza prospettiva, diventa imprenditore illuminato e buon tutore per il nipote. Lo sguardo di Balram, all’inizio disincantato e ingenuo, nel finale è completamente cambiato: è sicuro, fiero e consapevole che ne è valsa la pena. Ramin Bahrani ci porta dentro l’India e nel farlo non nega i lati che suscitano disgusto come la sensazione delle mani sporche di dolce (pan) di Balram, i primi piani dell’uomo con la vitiligine o il dettaglio dei denti sudici del nostro protagonista. Così facendo ci inserisce dentro la storia di Balram, e con lui nella storia di chiunque voglia trovare il suo posto nel mondo, sovvertendo le regole sociali in cui è stato limitato dalla stessa società con cui è costretto a vivere e confrontarsi.

Il messaggio che sembra lanciare La tigre bianca di Bahrani, soprattutto alla luce del momento storico che stiamo vivendo con la condizione pandemica, è quello di guardare alle nuove generazioni, come Balram con suo nipote, fornendo loro gli strumenti dell’emancipazione e che l’incubo maggiore sarebbe quello di rimanere un pollo in trappola. Dopotutto basta pensare al poeta Jabal quando affermava: “Quando capisci qual è la vera bellezza di questo mondo, smetti di essere schiavo”. E allora cerchiamo questa bellezza, uscendo dalla stia per essere uomini liberi e non più polli impauriti.

Vanessa Adabire Aznar