No Time to Die è il congedo di Daniel Craig, un intimo addio al personaggio di James Bond che lo ha reso grande.
L’ultima missione, l‘ultima scarica di pallottole.
L’ultima volta di Daniel Craig nei panni di James Bond, l‘ultima corsa del suo 007.
Basterebbe questa anafora estemporanea per descrivere il corpo e il cuore dell’operazione di No Time to Die, atto ultimo del Bond interpretato da Daniel Craig. È un capitolo ultimo per l’attore britannico, un film che completa l’arco narrativo del suo personaggio, portando sulle spalle tutto il peso della conclusione, della chiusura di quel cerchio aperto nel 2006 con Casinò Royale. Perché i 5 Bond Movie interpretati da Craig rappresentano, tassello dopo tassello, un piccolo microcosmo all’interno di un universo, una vera e propria pentalogia che lavora in verticale e in orizzontale per portare a compimento una storia. Quella di un uomo con licenza di uccidere che si confronta col suo passato, con i suoi demoni interiori, con la sua infanzia, la famiglia, le donne, gli amori, l’intimità. Un passato che lo logora e lo fortifica, un passato che affronta e combatte. Come sempre, più di sempre. Fino alla fine.
Ritorno al passato
No Time to Die è l’approdo di un viaggio iniziato quindici anni fa tra i canali veneziani di Casino Royale, proseguito nell’arido deserto di Quantum of Solace, consacrato con il successo planetario di Skyfall e con la discesa nelle tenebre della Spectre nel film omonimo.
Per celebrare dignitosamente la fine di un’era, Fukunaga torna dove tutto è iniziato, attraverso una ring composition che profuma di congedo in ogni attimo e ogni gesto. L’isola dell’ultima missione affrontata dal Bond di Craig, infatti, non può non ricordare Crab Key, la residenza del perfido Dr. No in Licenza di uccidere (1962), primo capitolo del franchise sull’agente segreto britannico.
Il film ha un afflato nostalgico nel rimandare a citazioni bondiane, dall’anello della Spectre alle auto guidate dai predecessori di Craig (Aston Martin DB5 di Goldfinger e la V8 Vantage di Zona Pericolo) fino ad arrivare al rispolvero di inquadrature poetiche (come la bellissima sequenza sul treno, in cui i finestrini delle carrozze simulano lo scorrere dei fotogrammi di una pellicola). Ma è Agente 007 – Al servizio segreto di sua Maestà il film con cui No Time to Die dialoga maggiormente e ha un debito spirituale, sia a livello visivo sia sonoro (con evidenti echi della colonna sonora di John Barry), con un incipit in auto tra James (Craig) e Madeleine (Seydoux) che riporta alla mente la fuga di nozze del Bond di Lazenby e della sua Tracy (Diana Rigg).
- Leggi anche: Spectre, la recensione del film di Sam Mendes
No Time to Die, It’s Time to Say Goodbye
No Time to Die è un lungo, lunghissimo addio. In primis per ragioni di durata: il film diretto da Cary Joji Fukunaga è il più corposo della saga in termini di minutaggio (2 ore e 43 minuti). In secundis per ragioni umane, di elaborazione del distacco: la separazione tra Bond e Craig è inevitabile e il regista lo sa bene. Infatti si concede una certa licenza, un permesso speciale, arrivando a confezionare un finale laconico e sorprendente.
Tra spettacolari scene d’azione e un pizzico di humour, il film scorre senza freni, a ritmi sostenuti, getta il cuore oltre l’ostacolo, crea enfasi e poi catarsi. Accompagna per mano l’eroe alla porta d’uscita, nel tunnel della sua fedelissima gunbarrel, emblema periodico di una saga che ha sempre vissuto di replicabilità e rinnovamento, della rassicurante certezza che l’agente di Fleming era – ed è – destinato a vivere in eterno. Sempre al centro del futuro, in un “domani che non muore mai“.
Aggiornare il mito di Bond
No Time to Die è il canto del cigno del James Bond postmoderno; un film che smitizza il mito di Bond, lo mette a nudo e lo veste di contemporaneità. Lo aggiorna ai dettami comuni, spogliandolo degli stereotipi d’antan sui quali era costruita la sua immagine inossidabile (l’uomo che non deve chiedere mai). Giunti all’epilogo, il Bond di Craig acquisisce uno spessore shakesperiano, del tutto romantico e coraggioso nel modo in cui mostra le sue debolezze e fragilità.
In un interminabile girotondo di riferimenti alle storie passate, non deve ingannare la presenza degli elementi che rendono immediatamente riconoscibile 007 (il Vodka Martini, rigorosamente agitato e non mescolato; l’Aston Martin; il solito modo di presentarsi; il super cattivo megalomane che brama un nuovo ordine per il mondo). L’atmosfera rarefatta e la solennità della messa in scena, quasi proustiana, raffinata e crepuscolare, circondano la dimensione filmica dal primo all’ultimo minuto rendendo No Time to Die differente dai capitoli precedenti. In un certo senso unico per le soluzioni narrative che adotta, assolutamente spiazzanti ed epocali.
Last Time, Craig
Un’uscita di scena per Craig che sa di ultima cena, dove al tavolo bondiano ci sono tutti i suoi fedeli apostoli: Moneypenny, M, Q, Felix, lo spirito di Vesper, Madeleine, la Bond Girl Paloma; la sua vecchia nemesi, Blofeld; e quella nuova, Safin. Tutti presenti per l’ultimo saluto all’attore che in 15 anni ha dato forma e sostanza al suo Bond, muscolarità e sentimento, in un modo assolutamente inedito, diverso dalle mimesi incarnate dai suoi predecessori (Connery, Lazenby, Moore, Dalton, Brosnan).
L’ultima volta di Craig, ma non di Bond. Perché, come ogni film della saga che si rispetti, c’è sempre spazio per una nuova storia, una nuova missione, una nuova avventura. Perché “James Bond Will Return“, come sottolinea il cartello alla fine dei titoli di coda. E tornerà nel futuro prossimo con un nuovo volto. Perché, è bene ricordarlo: gli attori passano, ma Bond rimane. Sempre e per sempre.
Andrea Rurali e Marco Tomasoni
VALUTAZIONE CINEAVATAR
no time to die recensione, no time to die recensione
no time to die recensione