bdskl9eI morti sono vivi, o più semplicemente gli spettri di un passato che riaffiora!
È questo il messaggio scolpito in calce, come su una pietra tombale, nel fotogramma a nero che apre allegoricamente lo scrigno impenetrabile del celebre agente segreto ‘Al servizio di sua Maestà‘, alias 007, nel quale, a partire dal 1962 (esordio di Bond in Licenza di Uccidere), sono custoditi i suoi segreti più oscuri ed enigmatici, e dai quali è stato forgiato un ideale testamento cinematografico, che l’alchimista Sam Mendes ha voluto plasmare con Skyfall e, ora, con Spectre. Il 24° capitolo della serie dedicata a James Bond è la summa fisiologica e complessiva delle 23 pellicole precedenti che hanno contribuito a creare l’immagine di un mito senza tempo portandolo inevitabilmente al successo. Il carisma, le donne, le Aston Martin sfreccianti, il vodka martini (agitato e “non mescolato”) sono gli ingredienti che hanno rafforzato, decennio dopo decennio, la figura di 007 quale icona impeccabile di stile, classe e perfezione nell’immaginario collettivo. Analizzare l’ultima fatica del regista premio Oscar diventa una missione quasi impossibile, indecifrabile, persino per la spia inglese, troppo disorientata per districare i numerosi fili di una matassa. Cercando di dare un ordine esegetico e interpretativo, si potrebbe inizialmente sostenere che ogni singola inquadratura, ogni frammento della sua logica costruzione, è realizzata secondo uno schema articolato che rimanda ineluttabilmente alle sequenze filmiche del passato.

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Dei sei attori che hanno vestito i panni dell’iconico James Bond, ognuno ha saputo donare al personaggio diverse qualità, conferendone una precisa identità: il fascino di Sean Connery, la prestanza di George Lazenby, l’ineffabile ironia di Roger Moore, la tenacia di Timothy Dalton, l’eleganza di Pierce Brosnan e, infine, l’ascendente raziocinio e il dinamismo di Daniel Craig hanno contraddistinto i caratteri emblematici di 007, trasformandolo e allontanandolo dallo stereotipo dell’autentico agente nato dalla penna del geniale Ian Fleming. La prima sorpresa del film è proprio questa: grazie alla sapiente regia di Sam Mendes, Bond viene condotto per mano lungo viali in tramonto e sconosciuti che portano il nome di solitudine, angoscia e paura. Spectre inizia con la celebre e sentita festività del Día de Los Muertos (Il giorno dei morti), poiché la morte è il vero dogma sul quale si sviluppa l’intera vicenda. La morte intesa come metafora di un passato che ha raso al suolo le speranze e cancellato l’animo di un uomo alla ricerca di sé stesso e della propria integrità personale. Il piano ideato dal cineasta americano è ben più ampio e strutturato di quanto si possa pensare: Spectre è da considerare la consecutio naturale di Skyfall (straordinario), la fusione simbolica di due lungometraggi aventi un unico denominatore comune, l’introspezione analitica di Bond che passa dalla storia tormentata vissuta nell’infanzia alla ferrea educazione impartitagli dall’MI6, ermetica Intelligence del governo britannico che gli ha concesso la ‘licenza di uccidere‘. Il secondo colpo di scena è racchiuso tutto nelle parole di M, interpretato da un ottimo Ralph Fiennes, che fanno luce su quanto il privilegio di poter premere il grilletto della Walther PPK calibro 8, senza remore, sia una delicata responsabilità, un libero arbitrio di applicare o non applicare alla lettera il codice dispositivo e determinare il futuro con un gesto fulmineo.

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Tra le analogie con il film di Lazenby (Al servizio segreto di Sua Maestà) e le molteplici citazioni ai sicari più rappresentativi assoldati dai cattivi del franchise (il mastodontico Dave Batista attinge a piene mani da ‘Squalo’ di Richard Kiel), Sam Mendes gira magistralmente un piano sequenza iniziale che mette i brividi, senza dubbio il più autoriale e innovativo della storia cinematografica di Bond, focalizzando l’attenzione principalmente sull’interiorità del protagonista alla continua ricerca dei fantasmi del suo passato. Ed è proprio seguendo il percorso tracciato dal visionario demiurgo di Reading che il senso di Spectre assume una duplice valenza: oltre alla storica organizzazione criminale capeggiata da Blofeld, che da sempre ha minacciato l’ordine e l’equilibrio del sistema, il titolo mette in luce in maniera evidente gli spettri onnipresenti dell’esistenza di 007. Il film sembra chiudere il cerchio della quadrilogia bondiana di Daniel Craig e l’era di una franchise che rischia di estinguersi senza una solida continuità tecnico-artistica (il binomio Mendes-Craig), culminando in un finale da western suburbano intriso di atmosfere decadenti e apocalittiche (ma a suo modo alternativo). Spectre è l’emblema più evidente di un passato che non muore, dal quale ritornano i personaggi chiave delle ultime tre pellicole: dall’amata Vesper Lynd a gli acerrimi villain Le Chiffre, Greene, Silva e Mr. White, pedine di una spietata associazione che portano dritte al misterioso ed enigmatico Franz Oberhauser (Christoph Waltz). I legami non sono lasciati al caso e, grazie all’aiuto dell’affascinante Madeleine Swann (una brillante Léa Seydoux), Bond tenta di aggirare i numerosi inganni e svelare la verità che si cela dietro SPECTRE (acronimo di SPecial Executive for Counter-intelligence, Terrorism, Revenge and Extortion).

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Sono i dettagli a rendere originale una pellicola che mescola scene spettacolari di pura azione (tre quelle fondamentali) e lampi di cinema d’autore che la qualificano come la più eclettica della serie. Un aspetto da non trascurare è legato a piccoli elementi che il regista semina sotto traccia durante l’intero arco narrativo: il bulldog che James Bond eredita da M in Skyfall è il simbolo della caccia all’eterno rivale, il gatto, animale per eccellenza del potere della Spectre che ha segnato nel tempo la vita dell’agente segreto. Il topo, dunque, rappresentato da 007 (ironicamente chiamato Mickey Mouse nel film) è l’ultimo anello di una catena essenziale il cui destino non è quello di scomparire ma di uscire allo scoperto e stravolgere gli eventi.

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Tra passato e presente, tradizione e modernità, classicità e progresso, l’eterno orfano dagli occhi azzurri si muove nei meandri più tetri e cupi del suo trascorso, dove riemergono i ricordi di persone che sembrano vive, vicine, presenti e che in realtà sono scomparse. Bond fluttua nell’ombra con i suoi scheletri e i costanti rimorsi, viene inseguito, diventa preda e, infine, sovverte i meccanismi iniziali perché ha i mezzi per farlo, non ama perdere e non può sbagliare. L’eroe britannico è un aquilone che volteggia in un uragano, un meteorite in mezzo al deserto, un’anima smarrita ad un bivio costretta a scegliere se vivere nel rimorso o morire con le proprie certezze. Ma dopo tutto si sa, per Bond è solo una questione di prospettiva.
Andrea Rurali & Cristiano Crippa

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