Abbiamo intervistato lo scrittore Davide Zambon.
Ecco cosa ci ha raccontato!

Buongiorno Davide. Partiamo subito dal libro che hai pubblicato. Il libro racconta dell’incredibile esperienza di trekking che hai affrontato con un amico, Marco: nel 2010 hai attraversato, a piedi l’Islanda, da nord a sud ed in soli 14 giorni. Ben 330 km, se non sbaglio. Cosa ti ha spinto a scrivere un libro, il tuo primo libro, su questa avventura?

Intanto, ciao a te! Allora, è presto detto, come scrivo sia sulla quarta di copertina del libro che nella mia pagina autore di Amazon: non avrei mai pensato che il mio primo libro sarebbe stato un resoconto di viaggio! Scrivo da tantissimo, ho accumulato appunti e materiali, il mio primo blog (parliamo dei primi anni 2000), stampato a corpo otto, carattere piccolissimo, occupa tipo seicento pagine…eppure, non ho mai trovato il “coraggio” di mettermi a scrivere il primo libro. Uno po’ non sapevo decidermi sul tema, un po’ sono sempre stato poco interessato alla trama: preferisco descrizioni, singole scene, riflessioni: insomma, tutto tranne che la voglia di mettere su carta un libro che potesse piacere a un ipotetico lettore! Aggiungici poi la confusione lavorativa degli ultimi dieci anni, ed ecco che non ho mai fatto lo sforzo di trovare il tempo per scrivere (ce ne vuole). Poi arriva il lockdown di primavera 2020, riscopro il diario scritto in Islanda, ed eccoci qua. Nasce “Attraverso: come ho attraversato l’Islanda a piedi durante l’estate più piovosa degli ultimi trent’anni”.

Parlando dell’impresa islandese in sé, come ti sei preparato fisicamente a questa insolita “traversata”? Quali sono stati i momenti più difficili del viaggio? Raccontaci tutto, siamo molto curiosi… Ovviamente spiegaci del perché hai voluto affrontare una “sfida” così ostica!

Come ci sono arrivato, beh, è facile: ho visto un video su YouTube, un ragazzotto svedese che la faceva in solitaria, con 40 chili di zaino (molti dei quali dovuti a una telecamera piuttosto ingombrante, se non ricordo male). Il video era anche parlato, in svedese, quindi non si capiva molto, ma abbastanza per scatenare la “voglia di impresa”. Così ne parlo con il mio compare, Marco, e decidiamo che dobbiamo provarci. La preparazione occupa un bel pezzo del libro, è piuttosto divertente perché abbiamo tentato di fare le cose per bene, ma alla fine abbiamo toppato su alcune cose davvero banali! Mancanza di esperienza.

Poi: aereo per Reykjavik, un paio di giorni di cazzeggio in città (per finire di comporre l’equipaggiamento), l’aereo interno per Akureyri, al nord, e l’effettiva partenza, a piedi. Il resto è storia: cammini, piove, monti la tenda, cucini, dormi, piove, ripeti. Dopo i primi 4 giorni, scopriamo che davvero è “l’estate più piovosa degli ultimi trent’anni”, ce lo dicono tutti. Riassumendo l’esperienza: grandi momenti di sconforto, la fatica immensa dello zaino (con punte di 23 chili di peso quando serviva riempire le borracce), panorami tra l’incredibilmente monotono e il maestoso, da rimanere senza parole.

Ne vale la pena, comunque, in ogni singolo istante. Fare una cosa del genere – l’hanno sicuramente già detto i “grandi” – ti mette di fronte alle tue debolezze, ai momenti in cui vorresti solo smettere e rifugiarti al caldo, ti isola psicologicamente, ti fiacca nel fisico. L’unica “impresa” che avevo fatto prima era stata il Cammino di Santiago: più lungo, certo, ma in confronto una passeggiata, durante la quale il corpo si abitua tranquillamente a camminare, fa un bel caldino, stai in maglietta, c’è vino e cibo in abbondanza, e i rifugi sono frequenti e pieni di gente che ha voglia di fare festa. Fa tu il confronto con: freddo, vento a 100 all’ora, pioggia, la tenda bagnata, i vestiti bagnati, mangiare muesli liscio a colazione (niente scaglie di cioccolata e frutti rossi!) e liofilizzati e pesce secco a pranzo e cena. E niente vino.

Nel libro c’è il racconto del “prima dell’impresa”, l’impresa tappa per tappa, una bella spolverata di miti islandesi, paesaggi vichinghi, scene inaspettate: tutte accadute realmente, queste ultime, perché i paesi nordici, comunque, una magia ce l’hanno davvero. E fanno accadere cose bizzarre.

davide zambon

Sicuramente avrai parlato con molti islandesi di questa tua esperienza. Loro cosa ne pensano?

Che abbiamo avuto – cito testualmente – “una bella idea del cazzo”. Questa ci è stata detta in capitale, un sabato sera, da dei ragazzi incontrati in giro. Che ti devo dire… gli islandesi amano la loro Isola, ne sono fieri, ti chiedono sempre cosa hai visto, se ti è piaciuto, come ti trovi… ma ho come avuto l’impressione di un popolo non troppo avvezzo allo sport.

Tornando al libro, che tipo di distribuzione avrà?

Diciamo… nessuna. Ho scelto di autoprodurlo perché volevo il controllo totale del prodotto, ma soprattutto perché non avrei voluto, una volta scritto, dover aspettare i tempi del cercare una casa editrice (e magari non trovarla), dell’editing, della stampa. Idem per i costi. La piattaforma KDP di Amazon adesso permette di stampare on demand, praticamente non ci sono spese, e il libro viene distribuito da Amazon. Le royalties sono anche piuttosto buone. Lo so: così ci attira le ire dei librai: e hanno ragione. Però ad un certo punto da qualche parte uno deve cominciare – a scrivere: e per me avere il libro finito e stampato in mano ha avuto solo effetti benefici. Quindi per ora va bene così: per il secondo, siamo ancora in tempo!

Purtroppo al momento non si possono organizzare presentazioni nel mondo reale, che sarebbero un ottimo modo per far conoscere il libro e venderne qualche copia… ma verrà il momento anche di quelle! Per il resto, ho deciso di farlo conoscere con il metodo old school delle pubbliche relazioni (e quindi… un grazie anche a Cineavatar!): comunicati stampa, contattare riviste del settore outdoor, web radio e via dicendo. Qualcosa si muove, lentamente, ma non ho fretta. Mi resta comunque la voglia di tradurlo in inglese, perché sono sicuro che il bacino di lettori sarebbe non solo più ampio, ma anche più sensibile a questi temi.

Nella tua vita lavorativa sei copywriter e ghostwriter. Hai voglia di parlarci un po’ del tuo lavoro principale?

Ci ho messo un bel po’ ad arrivarci: prima sono stato per dieci anni “topografo e disegnatore nei cantieri archeologici”. Avevo una forte remora: temevo che lavorare con la scrittura mi avrebbe privato il piacere di quella personale, e magari avrebbe corrotto lo stile che sentivo mio. A distanza di anni, e adesso che porto a casa la pagnotta scrivendo, posso dirlo: stronzate! Come copywriter lavoro per aziende e professionisti. Più o meno tratto tutto quello che ha a che fare con la parola scritta (e qualcosa di strategie di marketing). Qualche anno fa ho buttato l’esca del ghostwriting, la prima esperienza è stata molto bella, e adesso rappresenta il 50% del mio business… ma l’80% delle “cose belle”. Perché con il ghostwriting viene a conoscere le storie delle persone, ed è impagabile. (Ma c’è anche tanta responsabilità dietro).

Non solo i viaggi: sei anche un grande appassionato di musica, e sei un musicista!

Musicista è un parolone. Il primo modo che ho scoperto per cimentare la mia creatività è stata la chitarra elettrica, attorno ai 16 anni. Tanto studio, tantissimo metal, forse non tante idee, qualche gruppo… poi sono arrivate altre cose, la scrittura per prima, ma anche un tentativo (durato sei anni) di fare l’artigiano orafo. Ora la mia chitarra, una Charvel che adoro, è al servizio dei Dead Tongue, una band padovana: facciamo death metal vecchia scuola. Siamo al lavoro sul terzo CD, autoproduzione e molto underground anche qui, chiaro.

Se non erro, hai da anni un blog, gestito da te e dalla tua compagna…Che genere di contenuti inserisci nel tuo blog?

Stavamo camminando in montagna, all’incirca in Valle Aurina, e ho buttato là a Silvia: perché non apriamo un blog di viaggio? E ora, duecento articoli dopo, eccoci: bagaglioleggero.it è un blog di viaggio che, specie nell’ultimo anno e mezzo, ha preso un orientamento decisamente montano. Resocontiamo trekking ed escursioni, pubblichiamo guide su come si va in montagna. In ogni caso, siamo per un modo di viaggiare slow e rispettoso dell’ambiente, curioso delle piccole cose, su itinerari meno frequentati. Il grosso degli articoli è scritto da Silvia, che cura anche i social. Io tento di tenere in ordine quello che sta dentro al cofano, faccio un po’ di grafica, e scrivo anche.

Parlando di cinema, quali sono i tuoi generi e film preferiti? Conosci la cinematografia islandese?

Non ho un genere preferito. Come per i libri, mi dà più soddisfazione il modo di raccontare, che non il racconto stesso. Diciamo che ho un certo fastidio nei confronti della piega che ha preso ultimamente il cinema mainstream: mi chiedo come le persone possano esaltarsi per il MCU, o per questa “broda” di Guerre Stellari. Film preferiti, non so se posso espormi, sembrerei un pazzo scriteriato. I primi che mi vengono in mente, a bruciapelo: Fight Club, The Snatch, Old Boy (l’originale, chiaramente), Whiplash. Pulp Fiction, Warrior (quel film sulle MMA con Tom Hardy). Ultimamente mi sono emozionato con alcuni film americani sulle vite borderline: Re della Terra Selvaggia, Captain Fantastic, Leave No Trace… Mi sono commosso con i tre film sulla musica di John Carney (Once, Tutto può cambiare, Sing street), li ho trovati speciali. Ma ho anche un cuore nostalgico: sono comunque cresciuto con Schwarzy, Robocop, Die hard, Gli Intoccabili.

Infine, la cosa più formativa che mi sia capitata con il cinema. Un cineforum casalingo con tre amici, durato tre anni, durante il quale abbiamo guardato più di 100 film asiatici esclusivamente sottotitolati: zero roba di quella che arrivava in Italia (eravamo nel primo decennio dei 2000), un mix entusiasmante di grandi maestri in b/n e roba matta e coloratissima al limite dell’inguardabile. Eppure, mi ha aiutato a rendere elastici i limiti del mio gusto. Film islandesi, non conosco praticamente nulla, eccetto 101 Reykjavik, perché è tratto da un libro che è stato per un bel pezzo tra i miei preferiti (quasi una guida alla vita di trent’enne).

Ti ha mai solleticato l’idea di trovare un produttore cinematografico per tradurre in fotogrammi in movimento la tua mitica esperienza del 2010?

Devo dire di no, anche se… ho nel cassetto una mezza sceneggiatura (un decimo, meglio) legata al Cammino di Santiago, e un thriller (circa) ambientato in montagna. Sono però scettico, ho come idea che il cinema non sia il mezzo adatto per trasmettere l’esperienza del trekking, il feeling del camminare, e in genere dell’outdoor. Di solito ne viene fuori un’alternanza di scene di fatica monotona, e incidenti che vorrebbero essere buffi, ma per chi non cammina sono cringe e basta. Lo vedi ai festival “di settore”, tipo il Banff: alcuni documentari sono di una noia mortale se non sei un addetto di quella particolare micro-disciplina, altri funzionano nel senso che ti trasmettono il senso dell’impresa, ma magari perdono la parte emozionale più sottile, altri ancora diventano degli spottoni su quanto è figo chi fa quelle cose… insomma, difficile riuscire a mettere i pezzi assieme. Hollywood non ha fatto molto meglio, con i film di trekking, cammini e montagne. Mi ricordo dei momenti di vuoto pneumatico tra gli attori americanissimi durante le scene intermedie di Everest (regista islandese, peraltro). Quindi ecco, non saprei.

CineAvatar è un sito seguito da molti fan del cinema horror. Ti piace il genere? Se si, quali sono i cult horror che ami di più?

Non sono un super amante e non sono neanche molto colto a riguardo. Però ho diversi “guilty pleasure”. Al di là di alcuni classici (La casa, l’Armata delle Tenebre, il primo Alien), mi piace quando l’orrorifico è calato in situazioni meno convenzionali per il genere. Quindi niente zombie, serial killer e malattie mentali per me, potendo. Se voglio stare in punta di sedia, ricorro ai giapponesi (ovviamente Ichi the Killer, o Tetsuo The Body Hammer, o il Ragazzo Palo Elettrico). Mi piacciono alcune cose socialmente scorrette: tipo Mayhem e Belko Experiment. Mi sono goduto molto Ready or Not, anche se è più black comedy forse. Non mi dispiacciono le cose di contagio ed epidemia (però se si zombificano, meno). Infine, ogni tanto faccio cose matte, tipo procurarmi una serie di film horror, possibilmente pacchiani, e guardarli tutti di fila: ho finito l’ultimo Resident Evil il giorno prima che si iniziasse a parlare di Covid nei telegiornali.

Tornando all’Islanda, stai progettando di tornare, magari con un viaggio più “tranquillo”, nell’isola del ghiaccio e del fuoco?

Per forza. Negli anni ho poi letto molti libri sull’Isola, ritengo di avere un bel conto in sospeso con tantissime cose, grandi e piccole, da vedere e da provare. Fatto sta che con la mia compagna, un trekking in tenda in Islanda, prima o poi, ci scappa.

Progetti editoriali in cantiere per il futuro?

Sì, l’esperienza di Attraverso mi ha lasciato la voglia di continuare a cimentarmi con la scrittura di un lavoro articolato – com’è un libro. Ho già messo insieme – nella testa – parte dei personaggi e delle ambientazioni per un romanzo che vorrebbe trattare temi importanti, e che sarà ambientato in montagna… ma che non tratterà i temi che uno si aspetta da quell’ambiente. E credo ci sarà dentro molta arte: non è una dichiarazione sulle mie qualità di scrittore, ma uno degli, appunto, temi importanti.