ZeroZeroZero: la recensione dei primi due episodi della nuova serie di Stefano Sollima

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Gabriel Byrne in ZeroZeroZero
Sembra proprio che anche in Zero Zero Zero (come del resto in tutte le altre produzioni Cattleya dirette da Stefano Sollima) il filo conduttore del racconto sia l’inevitabile scontro generazionale tra vecchi e nuovi sistemi criminali, un complesso conflitto per la detenzione del potere e dell’affermazione individuale che, nel corso di questa serie, andrà a toccare diversi aspetti del traffico di cocaina internazionale, mostrandoci una delle realtà più temibili e tristemente efficienti, i cui ingranaggi sono mossi da meccanismi a noi del tutto sconosciuti.
Ancora una volta, lo spunto deriva dall’omonimo romanzo di Roberto Saviano ma ora siamo ben distanti dai quartieri spagnoli di Napoli e di fronte a una narrazione dal più ampio respiro visivo e interpretativo, dal momento che seguiremo le vicende legate a questi traffici illeciti in tre diversi paesi del mondo e in altrettanti contesti criminali.
Nel primo episodio di ZeroZeroZero, ci vengono presentate queste tre realtà molto diverse tra loro, con i relativi personaggi al centro del conflitto: un vecchio boss della ‘ndrangheta calabrese nascosto in un bunker, mentre il nipote cerca a tutti i costi di prendere il suo posto, un gruppo di paramilitari messicani che danno la caccia ad alcuni narcos per fermare un carico di droga e, infine, una facoltosa famiglia americana con un business legato al trasporto via nave delle merci illegali destinate al mercato internazionale.
Un notevole quantitativo di storie che purtroppo vengono raccontate in maniera confusionaria e poco intuitiva, cercando di passare continuamente da l’una all’altra, come a rimarcare il collegamento tra di esse ma, di fatto, evidenziando solamente la loro poca incisività.
In questo caso, Sollima manca di quella pulizia e chiarezza narrativa a cui ci aveva abituato in passato, complice anche una scrittura non proprio brillante dei personaggi messi in scena.
ZeroZeroZero
Andrea Riseborough e Dane DeHaan in ZeroZeroZero
Dal secondo episodio, invece, il registro sembra decisamente cambiare e dirigersi verso il fulcro della serie, ovvero lo scontro e le ambizioni dei personaggi che man mano si fanno sempre più chiari.
Gli intrecci si fanno solidi e scopriamo man mano come tutte queste storie siano collegate tra loro: il boss calabrese ordinerà un importante carico di cocaina per riprendersi il potere, la famiglia americana dovrà occuparsi del trasporto per non finire sul lastrico e, all’interno del gruppo di paramilitari, si scopriranno annidarsi alcuni agenti corrotti, il cui scopo è proprio la protezione di quella transazione.
La messa in scena diventa più asciutta e funzionale, le dinamiche sono semplici ma raccontate con grande mano dal regista che riesce a confezionare anche qui alcune scene d’azione magistrali, considerando gli scarsi mezzi televisivi, cosa per cui ormai è diventato celebre anche oltreoceano.
Sicuramente la parte che convince di più è quella strutturata in Messico, dove si sente tutta l’esperienza del regista maturata al timone di una grande produzione americana come Soldado (sequel del Sicario diretto da Denis Villeneuve), dove le immagini e le azioni parlano più dei protagonisti coinvolti.
I grandi volti internazionali della serie, interpreti della famiglia coinvolta nei traffici, fanno il loro dovere ma nulla più: Gabriel Byrne è il padre che gestisce l’azienda di trasporti, aiutato dalla figlia interpretata da Andrea Riseborough (il personaggio più convincente e ben scritto) che più avanti erediterà il tutto, coinvolgendo anche il fratello minore affetto da una malattia degenerativa e al quale presta il volto un Dane DeHaan ancora in attesa di esprimere tutto il suo potenziale.
Ed è così che ci sentiamo anche noi di fronte a questi primi due episodi.
Ci troviamo a pensare che, nonostante i colpi di arma da fuoco messi in scena dicano il contrario, siano state sparate ancora pochissime “cartucce” e la serie debba ancora riuscire a decollare.
Come in Romanzo Criminale e Gomorra, Sollima gioca con i personaggi e con la camera da presa, ottenendo un rigore che pochi registi hanno in termini di sequenze d’azione e scene di inseguimento al cardiopalma e, nonostante sia incredibile ciò che riesce a fare, non è ancora abbastanza per sostenere un racconto del genere.
Confidiamo che la sceneggiatura possa solidificarsi maggiormente con lo scorrere delle puntate e che le interazioni si dimostrino sempre più marcate e incisive.
Perché in fondo le premesse ci sono tutte, la scrittura generale è più che buona e ci fa piacere che una produzione in parte Italiana respiri in un contesto così internazionale e denso di quel Cinema di genere più diretto e d’azione che poco ci appartiene, a dimostrazione che, in fondo, la sottile linea che separa la televisione dal Grande Schermo si sta via via facendo sempre più sottile.