Tra angoscia e continui flashback, Maggie Gyllenhaal assorbe la scrittura della Ferrante per stilare una giostra di emozioni che colpiscono, per poi sparire immediatamente. 

C’è un qualcosa di ipnotico e immaginifico nella scrittura di Elena Ferrante. Una pozione segreta distribuita sulla pagina da parole impresse sotto forma di inchiostro che inebriano il proprio lettore, e lo trascinando nel cuore dei propri racconti, rendendolo parte integrante della storia. Una danza tra fantasia e scrittura che solo i grandi autori riescono ad accendere con il sacro fuoco dell’arte. Approcciarsi a questo mondo letterario, traducendolo in opera cinematografica o televisiva, si rivela pertanto un esperimento pericoloso. Per uno stile come quello della Ferrante, capace di rendere ogni personaggio tangibile e vivo, sostituire quel processo di creazione personale compiuto da ogni lettore, con quello unico di un regista, è un processo irto di ostacoli e trappole mortali. 

The Lost Daughter

Un cuore grande, un grande coraggio

Maggie Gyllenhaal ha dimostrato di essere un’artista di grande coraggio. Non solo perché ha affidato il proprio debutto cinematografico alla trasposizione di un’opera di Elena Ferrante, ma lo ha fatto selezionando tra i titoli della produzione letteraria di questa autrice avvolta nel mistero, uno dei suoi romanzi più ostici: La figlia oscura. Il risultato che ne consegue è un esperimento che sebbene non riuscito completamente, ha centrato comunque l’obiettivo primario prefissato dalla Ferrante stessa: costruire un mondo di cuori che battono, di corpi vivi, stabilendo con il mondo oltre lo schermo un legame affettivo di profonda comprensione e immedesimazione.

The Lost Daughter inciampa là dove è stata premiata a Venezia. La sua sceneggiatura non offre nulla più di quanto già donato dalle pagine di Elena Ferrante. I dialoghi risultano interessanti, ma non brillanti; tra gli spazi di ogni singola battuta non vi è nulla di eccelso o straordinario. Le parole scivolano sul corpo degli spettatori come gocce di mare, per poi asciugarsi ben presto al sole. Scompaiono dalla memoria del proprio pubblico, a differenza dello sguardo perso, angosciato, di una Olivia Colman ancora una volta fautrice di una performance introspettiva e mai sovraccaricata emotivamente (si pensi solo a La Favorita). 

Regia intima di menti frammentate

È una regia ristretta, volta al dettaglio quella della Gyllenhaal. Non solo galleria di primi piani atti a scrutare e indagare i non detti rilevabili attraverso la forza dello sguardo, ma anche di oggetti che dietro il loro essere inanimati rivelano comunque una natura empatica. E così un gioco ordinario come una bambola, torna – dopo L’amica geniale – a farsi ponte diretto con la propria interiorità, con ricordi solo apparentemente rimossi e pronti a ritornare a galla, come onde mnemoniche, che trascinano la sua protagonista verso l’abisso di una maternità affrontata con timore e senza manuale di istruzioni. Le partecipazioni soggettive si fissano pertanto in un’immagine oggettiva che restituisce anima e corpo a flashback che si insinuano nello scorrere del racconto, frammentandolo in continui andirivieni temporali che interrompono un intreccio spezzettato e frantumato proprio come la mente della propria protagonista. 

L’uso della camera a mano dona un senso di domestica artigianalità, come se il suo The Lost Daughter nascesse dagli archivi di un filmino amatoriale girato in famiglia durante una vacanza in Grecia. Ciò accresce il senso di realismo e verosimiglianza che intacca l’intero sviluppo dell’opera, esacerbando quella sensazione di imperfetta umanità con la quale è stata modellata Leda, e insieme a lei la galleria di figure che la circondano, come un coro pronto a richiamare e riportare sullo schermo frammenti di un vivido passato.

La solitudine di Leda

È una donna che vuole vivere momenti di pace interiore, lontana da tutto e tutti, Leda. Godendo della propria solitudine sulle spiagge della Grecia (e non più dell’Italia come nel romanzo di partenza) la protagonista di The Lost Daughter tenta di distaccarsi dalle responsabilità famigliari e professionali di docente universitaria, mettendo un attimo in pausa la propria vita. Un bisogno di cucirsi attorno una bolla che la separi dal mondo esterno sottolineato dalle scelte di regia della Gyllenhaal, stretta quanto basta per non includere nel raggio di azione della sua protagonista la fiumana di personaggi sibillini e misteriosi che tentano di superare il confine personale stabilito dalla donna.

Ed è proprio nel momento in cui tale confine viene oltrepassato, che l’aura di recriminazioni, rimorsi e inquietanti pensieri che avvolge il suo passato, esplode in tutta la sua violenza, riempendo la mente di Leda e con lei – grazie alla regia di Maggie Gyllenhaal – dei propri spettatori. Complice anche e soprattutto il personaggio della giovane madre Nina (doppio speculare della stessa Leda) ciò che è sicuro e famigliare viene trasformato in qualcosa di pericoloso a livello psicologico. Guardare questo mondo è come ammirare i quadri di un artista come Andrew Wyeth, dove ad avvolgere soggetti apparentemente ordinari, è una carica di tensione nata da un motivo non percepibile.
Con semplicità, e senza tanti virtuosismi, la Gyllenhaal costruisce un tessuto espressivo per veicolare un rimosso che si dà nei lapsus della mancata cognizione degli sguardi e nel misurato rallentamento delle azioni. 

In punta di piedi

Ciò che ne deriva è un debutto cinematografico compiuto in punta di piedi, giocato su uno stile registico mai urlato, ma sussurrato. Con eleganza Maggie Gyllenhaal cuce senza grandi stravolgimenti, o slanci rivoluzionari, un intreccio comunque interessante, coinvolgente, sebbene non penetrante quanto avrebbe potuto. 

The Lost Daughter è un po’ come lo spillo con cui Nina colpisce Leda. Colpisce, spaventa, coinvolge, ma non atterra. Le promesse generate dal testo della Ferrante sono mani titubanti che inferiscono con leggerezza, senza lasciare una cicatrice, ma solo un piccolo taglietto che con il tempo scomparirà.