L’esistenzialismo illuminato dalla luce abbagliante del Messico. Ma nell’opera di Michel Franco qualcosa va storto, e la partecipazione affettiva si blocca, come un viaggiatore al check-in senza passaporto

Poteva essere un campo di battaglia di lotte intestine, di pugnalate e sangue familiare pronto a scorrere con terrore imprimendosi su banconote macchiate di ambizione e tradimenti, Sundown. Poteva essere un dramma shakespeariano, un po’ Amleto, un po’ King Lear, e anche un po’ Riccardo III. Storia di zii, nipoti, fratelli che scalano la torre del successo lasciando cadere chi erano chiamati ad amare e invece hanno preferito tradire. Poteva essere tante cose, Sundown, invece il nuovo film di Michel Franco ha preferito rinchiudersi nel minimalismo, nella sottrazione, costruendo una torre d’avorio fatta di apatia che impedisce al proprio spettatore di soffrire, sorprendersi, avvicinarsi emotivamente ai propri protagonisti. Racchiuso tra hotel di lusso, e mare cristallino, il palcoscenico allestito da Franco in una terra senza riferimenti, non luogo turistico fatto di omologazione, è pronto a implodere in una bolla di non detti, firme apportate, chiamate dolorose e sospiri sostituitisi a urla di sfogo. 

Sundown

Sundown; tramonto, dunque, ma il rosso che squarcia il cielo in uno spettacolo della natura non fa mai capolino nel mondo di Franco. Il tramonto proposto è piuttosto quello di un’interiorità che si è arresa. Non riesce più a combattere di fronte al lutto, agli omicidi, alla perdita famigliare, alla passione e alle rapine, Neil (Tim Roth). Il suo è un corpo fatto di carne, ma che non sente più il battito del proprio cuore e il calore del proprio sangue.

Neil e l’ombra dell’essere uomo

Sembra aver trovato un proprio equilibrio in cui nulla è in grado di turbarlo, questo protagonista, calamita che ci attira a sé per poi spingerci via. Ma è tutto un equilibrio solo illusorio costruito sul filo della depressione.

La macchina da presa si limita a seguirlo a debita distanza, registrando gli inframezzi di un’esistenza scevra di brividi, smossa solo dal fragore degli spari, ma non nell’anima. Pochi i primi piani che Franco concede al proprio protagonista. Niente deve spingere alla creazione di un qualsiasi legame affettivo con un uomo che ha ceduto al peso dell’esistenza. Lo spettatore è così chiamato ad assistere a debita distanza a un uomo pronto a scendere in picchiata verso gli attimi finali di una vita di cui non sappiamo nulla al riguardo. Questa privazione informativa sul suo background non è altro che un’ulteriore operazione da parte di Franco di modellare un automa, più che un essere umano. Dando input personali avremmo altrimenti avuto la possibilità di tessere una tela di emozioni, sentimenti, che non appartengono però più a un uomo ridotto a mero respiro, gambe che camminano e labbra che si bagnano di birra. Non possiamo permetterci di rendere umano il personaggio di Tim Roth. Quella imbastita da Franco è un’esposizione troppo introspettiva e implicita, sorretta e inglobata da un protagonista sofferente e incapace di reprimere ormai questa condizione, rifugiandosi in una compostezza a volte difficile da svelare.

Il suo Neill si muove come un Flâneur contemporaneo spogliato della gioia di trarre da ogni paesaggio, o attimo di vita, la bellezza lì intrinseca. Si sposta come una busta trascinata dal vento, Neil, incarnando l’essenza di quell’esistenzialismo che vuole l’individuo portatore di un carattere precario e finito. In lui si congiungono l’insensatezza, l’assurdo, il vuoto che caratterizzano la condizione dell’uomo moderno. È un viandante sul mare di nebbia della solitudine il protagonista nato dalla fucina della mente di Franco. Quello che lo avvolge ad Acapulco non ha più niente del paradiso in Terra propinato dalle guide turistiche; è un oceano fatto di onde nefaste fattesi ostile, incomprensibili, estranee, che lo avvolge per poi respingerlo.

Implosioni bloccate sul nascere

Sundown

I contrasti sociali che esplodono con fragore come bombe in Nuevo Orden (Leone d’Argento Gran Premio della Giuria a Venezia 77) qui rimangono latenti. Un urlo appena sospirato, in un film in cui tutto viene accennato, senza mai esplodere.  Sundown vive sulla forza dell’apatia, affiancandosi e modellandosi perfettamente come una seconda pelle all’essenza del proprio protagonista. Attorno al corpo perpetuamente in movimento di Roth, gli unici accenni di umanità sono quelli nati in seno a un funereo ritratto di famiglia, sospinto da ipocrisie, silenzi insostenibili e dai quali è impossibile sottrarsi. Ed è proprio in questa insostenibile pesantezza del (NON) essere che si ritrova quello che doveva essere il punto di forza dell’intera produzione, finendo per diventarne il tallone d’Achille. Le emozioni sono ridotte a ideali, simulacri pronti a essere abbattuti, sempre più viscerali e meno toccanti. La mancanza voluta di un climax strozza la purezza di un racconto di matrice esistenzialista che avrebbe potuto stringere il cuore, togliendo la parola. 

Nonostante la breve durata, ogni minuto pesa nella cronometria personale dello spettatore come un macigno. Ogni inquadratura si sente, e non per commozione o introspezione empatica, ma come privazione di un’alternativa valida alla visione. 

Lo scombussolamento sociale, e la denuncia politica fatta di discriminazioni e pregiudizi, è un canovaccio appena abbozzato. Uno schizzo buttato giù sulla pagina con estrema velocità. Interessante il contrappunto visivo scaturente dal contrasto di una fotografia accesa, pienamente illuminata, figlia di una luce solare che brilla e tutto abbaglia, con l’ombra interiore di un uomo sull’orlo di essere inglobato dalle fauci dei propri fantasmi interiori. E anche i vestiti con cui si abbiglia Neil, sempre uguali, proprio come le giornate che si reiterano senza gioia di vivere, o sprazzi di sorpresa, sono elementi parlanti attraverso cui costruire una rete che tanto vorrebbe condividere, senza comunicare. E come potremmo condividere un dolore, se privati di tutte le informazioni, se non a posteriori, con colpi di scena che bruciano, perché sopraggiunti troppo in ritardo?

Sundown è dunque un film frenato in potenza. Tim Roth ci prova a donare una parvenza di umanità a un uomo ridotto a elettrocardiogramma piatto. Non pare avere tridimensionalità il suo Neill; senza emozioni, è nei movimenti compiuti con inerzia, e negli sguardi vuoti, malinconici donati sullo schermo dall’attore inglese, che si ritrova un barlume di un uomo che uomo non pare più.