In Madres Paralelas Pedro Almodóvar racconta le donne che si incontrano, scontrano e abbracciano, generando una scintilla vitale ricca di speranza, sebbene adombrata da uno spettro di morte.
Film d’apertura di Venezia 78.

Diventare madre è un po’ come scavare a fondo un campo immenso. Affondi la pala con forza, per ricercare emozioni, scoprire nuovi livelli emotivi fino ad ora sconosciuti.
Nessuno ti insegna a essere madre. È un qualcosa di istintivo, di movimenti meccanici che si ripetono, proprio come si ripete l’azione di affondare la pala al terreno e scavare, scavare, per ritrovare il coraggio di modellare e crescere una nuova vita.

Scavare a fondo un campo immenso può essere associato però anche al concetto di morte, di corpi nascosti, di respiri mancati, di occhi che si chiudono per sempre al teatro della vita. Un gioco di parallelismi, che Pedro Almodóvar raccoglie a piene mani, costruendo su una struttura dicotomica il suo nuovo film, intitolato non a caso, Madres Paralelas.

madres paralelas

Film d’apertura della 78.esima edizione della Mostra del cinema di Venezia, l’ultima fatica del regista spagnolo riprende gli stilemi e le tematiche care al proprio autore, elevandole verso un discorso maturo, tradotto in scena da madri giovani, mancate, ritrovate, perdute. 

Più che parallele, le madri di Almodovar sono donne che si incontrano, scontrano e abbracciano, generando una scintilla vitale ricca di speranza, sebbene adombrata da uno spettro di morte.

A unire questo senso di complicità femminile ci pensano riperse ad ampio respiro, pronte a colorare un universo femminile colmo di sfumature, e unito in una giostra caleidoscopica di caratteri eterogenei di donne coraggiose, fragili, madri tenaci, madri parallele.
In una stessa camera di ospedale, il destino gioca il suo scherzo, incrociando per sempre la vita di due donne agli antipodi, tanto nei caratteri quanto nel loro essere madri: una realizzata, l’altra mancata, i due cuori inizieranno comunque a battere all’unisono, lungo un cammino unico che congiungerà il percorso di un treno che dopo aver corso per anni lungo binari paralleli, trova adesso il proprio equilibrio, sfrecciando con forza lungo una stessa rotaia. 

madres paralelasIn un ambiente ricolmo di obiettivi di flash che accecano lo sguardo, e superfici riverbanti riflessi speculari di madri alla seconda, Almodovar traccia il proprio saggio sulla maternità infarcito di inframezzi politici. Un inno alla vita che nasce, scritto con la penna intinta nell’inchiostro storico di un paese mai davvero ricomposto. A segnare la vita delle proprie protagoniste è dunque la figura di una terza madre, quella di una Spagna il cui territorio tanto mentale e menmonico, quanto materiale, viene scavato a fondo alla ricerca di fantasmi e corpi ora pronti a ritornare alla luce per mano di una Janis che si fa loro madre putativa. Ottenere il via libera agli scavi con cui riesumare il corpo del bisnonno, e con lui di altre decine di uomini tenuti nascosti sotto strati di terra dai tempi della Guerra Civile, è come dar di nuovo vita a questi concittadini.

Se in Dolor y Gloria Penélope Cruz (al Lido anche per presentare Competencia Oficial) era il grembo materno, raccoglitore di ricordi di infanzia, in Madres Paralelas la sua Janis si eleva al ruolo di genitrice di portali mnemonici di radice storica. Sebbene la morte bussi con costanza alla porta della protagonista, tentando di adombrare con il suo mantello il sonno della ragione di una donna portata sullo schermo con passione da una Penelope Cruz pienamente in parte, a illuminare il mondo di Janis e Ana è una fotografia accesa, pronta a illuminare il loro cammino di madri. Costantemente rinchiuse tra le mura di casa, le due donne non sentono il peso del ruolo a loro affidate. A quell’ambiente domestico si sentono appartenere di natura; lo dimostra la perfetta combinazione dei loro vestiti con i colori dei mobili, degli elettrodomestici, o delle pareti che le circondano. Un universo famigliare che le tiene legate, le unisce come figure camaleontiche adesso pronte a nascondersi dalle mani dei ricordi, dei segreti e della paura per non farcela che si insinuano tra le intercapedini di ogni camera da loro attraversata. 

Madres Paralelas

È un trionfo della femminilità, Madres Paralelas. Una fiumana di donne emotivamente d’impatto che finiscono per relegare la figura maschile al bordo dell’inquadratura. Non è un caso, dunque, che l’unico uomo a cui Almodóvar dona importanza, non solo venga allontanato dallo scorrere degli eventi per buona parte dell’opera, ma si ricollega al concetto di morte. È un antropologo forense, Arturo (Isreael Elejalde), e come tale finisce per unire la sua relazione con Janis all’idea di essenza mortifera. Lo stesso risultato della loro unione è perfettamente collegato al concetto di morte.

Eppure da quella natura nefasta posta alla base della loro relazione, può germogliare comunque il fiore della rinascita. Una rinascita materna, ma anche nazionale. Sarà infatti grazie ad Arturo che Janis potrà svolgere il proprio ruolo di madre, non solo di Cecilia, ma anche della nazione. Vessillo della caparbietà, della restituzione dei corpi dei propri cari al popolo, Javis illumina e fotografa simbolicamente le due anime di una Spagna che vive ancora nel ricordo del passato, e allo stesso tempo è alimentata dalla speranza di nuove generazioni, pronte a ricucire gli errori dei propri antenati.

Ritratto genetico di una nazione, Madres Paralelas vive di battiti cardiaci che non sempre risentono però degli stimoli elettrici rilasciati da corpi visibili, ma non tangibili. Seguiamo le vicende di queste madri, sentiamo la passione scorrere nelle loro vene, ma qualcosa si blocca nel processo di totale immedesimazione.

Il desiderio quasi ambizioso di estendere la profondità di temi fortemente vicini al regista (stupro, omosessualità, memoria storica), alla sensibilità completa dei propri spettatori viene indebolito da una frettolosità di risoluzione che frena la potenza di una promessa narrativa che avrebbe colpito e affondato il proprio pubblico. 

Guardiamo il film di Almodovar come si guarda con sguardo nostalgico una foto d’epoca ormai ingiallita dei nostri cari; ma lo facciamo a debita distanza, senza esser del tutto coinvolti, ricordando, ma non piangendo. 

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