Dune di Denis Villeneuve è un film solenne, ma anche fisico e metafisico.
La prima parte di un viaggio il cui destino è nelle mani del pubblico. Presentato fuori concorso a Venezia 78.

“I sogni sono messaggi dal futuro”. È questa l’ouverture riservata a Dune, con una voce narrante a sussurrare poche ma incisive parole mentre le immagini catturano il volto plastico di Paul Atreides (Timothée Chalamet).

La premessa è trionfale, ci sono tutti i presupposti per ritrovare la quintessenza delle pagine firmate da Frank Herbert nella magnificenza estetica di Denis Villeneuve. Un innesco sulla carta potentissimo, ma complesso nel suo sviluppo, nei meccanismi intestini, nelle insidie che un romanzo può riservare.

dune

Dune al cinema

Al terzo tentativo di adattamento al cinema, dopo l’ambiziosissimo film mai realizzato da Alejandro Jodorowsky e la controversa opera di David Lynch, il primo volume dell’epica fantascientifica di Herbert è stato preso in seno da Hollywood. Da Warner Bros. Studios, per la precisione. Il mandato – piuttosto esplicito – al regista Denis Villeneuve è quello di fare un film più filologico possibile. Nessuna stravaganza anni ’70, niente ritmo jazzato in regia. Serviva un’opera inattaccabile, fatta per i fan ma anche per il grande pubblico. Capace di capitalizzare la difficile storia alla base e lanciare un franchise di lunga durata.

La scritta “Part One” che emerge sotto il titolo è solo parzialmente una sorpresa. Ma fin da subito si rivela un elemento che fa preoccupare rispetto alla chiusura della storia. Il secondo film non è infatti ancora in produzione e occorrerà un buon successo al box office per riportare il team di star che lo compongono di nuovo sul set.

Villeneuve è però un maestro della misura. Sa quando tenerla (come nel caso del composto Blade Runner 2049) e quando perderla, come accade in Dune. Dal primo suono una voce ci introduce in un mondo muscolare, pesante, decomposto. Ogni oggetto sul pianeta di Arrakis ha una funzione di sopravvivenza. Non c’è spazio per inutili suppellettili nel deserto inospitale. La regia, aiutata da un comparto sonoro a dir poco travolgente (la firma è di Hans Zimmer), fa di tutto per raccontare i fatti mostrandocene la gravità (e la gravitas).

Dune
Timothée Chalamet nei panni di Paul Atreides
Un viaggio inaspettato

Dune è un film solenne, ma anche fisico e metafisico, anatomico e mastodontico. È fuori scala, ma al contempo non perde mai l’equilibrio formale. Un miracolo di sapienza registica che fa perdonare anche una certa freddezza (ma siamo solo all’inizio del viaggio) che non giova al godimento generale. Però siamo di fronte a un’opera che sconfina nel cinema blockbuster più sperimentale. Non perché esce dai canoni, ma perché è talmente estrema in tutte le sue componenti più tipicamente cinetiche ed estetiche da essere un’esperienza di visione totalmente immersiva e pienamente in linea con quello che fu l’intuizione dei Lumiere. Ne escono pochi di film come Dune, che non vanno ad accarezzare le emozioni ma i sensi. Lo era il poco riuscito Tron: Legacy, lo è stato anche il capolavoro Mad Max: Fury Road. E lo è Dune.

Dune
Denis Villeneuve con Javier Bardem (Stilgar)
(Space) Opera con Autore

Non un effetto visivo fuori posto, non un particolare lasciato al caso. Il film è costruito per affascinare come un colpo di fulmine: prima ci illumina con la sua bellezza visiva, poi troviamo la vera anima, sotto uno strato draconiano di epidermide. Villeneuve preleva tutta la sua autorialità e la ingloba in un kolossal sci-fi dallo slancio epico, cercando una via che riesca a fondere al massimo la sua visione con gli archetipi del cinema commerciale e mainstream.

In Dune troviamo tutte le tracce del Villeneuve regista e autore, la sua dottrina stilistica, il credo immaginifico: una costruzione narrativa chirurgica, un impianto estetico sublime e una cura maniacale, morbosa, al limite dell’ossessione, per i dettagli. Soprattutto per l’oggettistica di scena, per tutti quegli elementi ricorrenti che diventano tasselli chiave per la comprensione del testo filmico. Quasi come fossero dei piccoli easter egg da memorizzare, disseminati tra le immagini e le inquadrature (non sveleremo quali, ovviamente, per non cadere nella rete dello spoiler; c’erano in Enemy, ma anche in Arrival e in Blade Runner 2049).

Dune
Paul Atreides e Lady Jessica (Timothée Chalamet e Rebecca Ferguson)
Il cuore oltre l’ostacolo

Di cuore ce ne sarebbe anche molto, ed è contenuto tutto nel complesso libro di Herbert. Villeneuve sta un passo indietro rispetto al materiale di partenza, ma non scompare, non si nasconde, ma emerge lentamente come gli Shai-Hulud (i vermi) dal deserto di Arrakis. Non è semplice, ma leggendo le immagini si può percepire anche tutto l’afflato spirituale e intimo.

Ci sono un paio di momenti che solo attraverso l’azione raccontano una filosofia di vita. Come quando il velivolo su cui viaggia Paul Atreides entra in una tempesta di sabbia e si lascia trasportare dal vento, proprio come il suo pilota fa con la vita. Ci sono poi i piccoli sguardi tra Lady Jessica e il figlio (una Rebecca Ferguson molto in parte e un Timothée Chalamet poco più che funzionale al risultato). Ci sono creature la cui sola presenza comunica condizioni ambientali e possibilità di esistenza (e che cura nei costumi e nelle scenografie!).

verme arrakis

L’inizio di una grande epopea

Sotto questa copertina, per chi vuole, c’è anche una storia profondamente attuale e politica, qui molto spuntata (e abbozzata) per abbracciare un pubblico ampio e non “da festival”. Villeneuve è chiarissimo, ma deve spiegare molto. Una via obbligata che non facilita il compito al film nella prima ora, così come la divisione in (almeno) due capitoli (?). Scelta che, dal punto di vista puramente teorico, sospende il giudizio di Dune. Lo rimanda ad un futuro incerto, in bilico tra il responso del pubblico e la mancanza di coraggio della Warner.

Da una parte sembra di assistere ad una space opera di apertura, di una grande epopea che cerca la sua strada ai confini di Hollywood, come fu Star Wars nel 1977 o Il Signore degli Anelli all’inizio del nuovo millennio. Progetti epocali, di rottura, che hanno trovato nel tempo un ineffabile compagno di viaggio, un alleato, un amico. Cosa che Dune non sembra avere acquisito da Warner, una guida produttiva alla Kevin Feige o alla George Lucas, un capo progetto, una company come la New Line, una linea editoriale precisa. Perché tutto è congelato in attesa del secondo atto, del capitolo due, della sua naturale conclusione.

Il destino nelle mani del pubblico

Che sia un rischio calcolato o un’errata scelta di programmazione da parte di Warner?
Ai posteri l’ardua sentenza. O forse sarebbe meglio dire: allo spettatore il compito di decidere il destino di Dune. Ancora tutto da scrivere, ancora tutto da scoprire. Con la speranza che la premessa di Villeneuve diventi una promessa. Con la fiducia che Dune possa trovare la sua strada, che sia al cinema o in tv (magari mutando forma, diventando un prodotto seriale per HBO Max come fu nel 2000 per la miniserie Dune – Il destino dell’universo prodotta per Sci-Fi Channel).

Dune è stato presentato fuori concorso a Venezia 78 (qui la scheda della Biennale).

VALUTAZIONE CINEAVATAR