
La fantascienza approda al lido. Era attesa, certamente, ma si è rivelata una grande sorpresa. Amy Adams interpreta una linguista, stimata in tutto il mondo. Un giorno qualunque sulla terra il mondo viene sconvolto: 12 oggetti non identificati stazionano su altrettante nazioni. All’interno dei giganteschi gusci, sospesi nell’aria, viaggiano degli eptopodi alieni. Il compito di Louise sarà proprio quello di aprire un canale comunicativo con le creature, decifrare il loro linguaggio e capire le ragioni dell’arrivo sulla terra. Nel frattempo i paesi sono nel panico, il caos divampa nelle città e la guerra sembra inevitabile.
Da tale premessa si origina un film incredibile, capace di utilizzare una presenza, un corpo estraneo nel nostro pianeta, per parlare delle contraddizioni che affliggono il nostro essere umani. Tutto ciò viene mostrato, più che enunciato, reso simbolo e gesto. La comunicazione incontra, nelle scene della pellicola, la fisicità, il disegno e il ricordo. La filosofia e la scienza degli uomini, relegati in bozzoli privati come case, stanze, automobili, vengono rimessi in discussione. Le contraddizioni della società moderna, iper divulgativa ma incapace di parlarsi veramente, burocratizzata ma inefficiente, emergeranno da questo incontro.
Arrival è un’opera intensa, capace di inquadrare e portare sullo schermo il gusto della fantascienza tanto cara a geni come Kubrick e Asimov. Quella basata sulla scienza, più che sull’azione, sul senso della scoperta, più che sugli effetti speciali. Arrival divampa proprio quando decide di concentrarsi completamente sulla magnifica protagonista: Louise, interpretata da Amy Adams. La forza della donna non viene da una scrittura orientata verso l’androginia (come la Ellen Ripley di Alien) ma proprio dalla sua fragilità. Una madre ferita sarà l’ultima speranza del mondo (finalmente un personaggio femminile scritto egregiamente).
