Arrival è un’opera intensa, capace di inquadrare e portare sullo schermo il gusto della fantascienza.

La fantascienza approda al lido. Era attesa, certamente, ma si è rivelata una grande sorpresa. Amy Adams interpreta una linguista, stimata in tutto il mondo. Un giorno qualunque sulla terra il mondo viene sconvolto: 12 oggetti non identificati stazionano su altrettante nazioni. All’interno dei giganteschi gusci, sospesi nell’aria, viaggiano degli eptopodi alieni. Il compito di Louise sarà proprio quello di aprire un canale comunicativo con le creature, decifrare il loro linguaggio e capire le ragioni dell’arrivo sulla terra. Nel frattempo i paesi sono nel panico, il caos divampa nelle città e la guerra sembra inevitabile.

Da tale premessa si origina un film incredibile, capace di utilizzare una presenza, un corpo estraneo nel nostro pianeta, per parlare delle contraddizioni che affliggono il nostro essere umani. Tutto ciò  viene mostrato, più che enunciato, reso simbolo e gesto. La comunicazione incontra, nelle scene della pellicola, la fisicità, il disegno e il ricordo. La filosofia e la scienza degli uomini, relegati in bozzoli privati come case, stanze, automobili, vengono rimessi in discussione. Le contraddizioni della società moderna, iper divulgativa ma incapace di parlarsi veramente, burocratizzata ma inefficiente, emergeranno da questo incontro.

arrival Photo: courtesy of La Biennale di Venezia
Amy Adams as Louise Banks in ARRIVAL by Paramount Pictures – La Biennale di Venezia
Villeneuve e la fantascienza intimista

Arrival è un’opera intensa, capace di inquadrare e portare sullo schermo il gusto della fantascienza tanto cara a geni come Kubrick e Asimov. Quella basata sulla scienza, più che sull’azione, sul senso della scoperta, più che sugli effetti speciali. Arrival divampa proprio quando decide di concentrarsi completamente sulla magnifica protagonista: Louise, interpretata da Amy Adams. La forza della donna non viene da una scrittura orientata verso l’androginia (come la Ellen Ripley di Alien), ma dalla sua fragilità. Una madre ferita sarà l’ultima speranza del mondo (finalmente un personaggio femminile scritto egregiamente).

Arrival è anche film sulla solitudine, sulla disperazione, e sul modo attraverso cui queste condizioni possano essere vinte grazie all’interazione fra culture differenti. La sceneggiatura potrebbe essere trasposta in un trattato di linguistica generale, tanta è la cura con cui vengono riprodotti i processi comunicativi. Le parole, lo scambio di informazioni, non sono solo mostrate ma vengono indagate e amate nel loro svolgersi. Lo schermo bianco, grazie al quale gli umani possono ‘interloquire’ con gli alieni, sembra quello schermo cinematografico, foriero di possibilità, che contrae lo spazio e il tempo e li eterna nella memoria.

arrival Photo: courtesy of La Biennale di Venezia
Jeremy Renner è Ian Donnelly in ARRIVAL – Photo: courtesy of La Biennale di Venezia
Il cerchio si chiude

È inoltre eccezionale la capacità con cui Villeneuve, assieme al suo team creativo, ha inventato un intero linguaggio extraterrestre, plausibile e innovativo. Era dall’elfico tolkeniano che non si vedeva una cura simile delle strutture semiotiche in un prodotto mainstream. Arrival attinge a piene mani da Contact, unendolo con il Terrence Malick di The Tree of Life e raccontando le vicende con la chiarezza e la sicurezza del Nolan di Interstellar. Villeneuve dirige un classico istantaneo, un gioiello contemporaneo di fantascienza. La storia è intrisa del fascino della scoperta e procede focalizzandosi sulla fatica dei protagonisti. Gli effetti speciali sono quasi invisibili, talmente sono funzionali alla narrazione. E il finale, perfetto e struggente, illumina lo schermo con 20 minuti di emozioni inedite, gioia disperata. Lo spazio e il tempo collassano e il cerchio narrativo si chiude. Chapeau.

Consigliato a: chi ama gli alieni e la fantascienza ma non gli effetti speciali fini a se stessi.

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