La recensione di STO PENSANDO DI FINIRLA QUI,
il nuovo film Netflix
scritto e diretto da Charlie Kaufman

La profezia dice che, ogniqualvolta si verifica un preciso allineamento planetario, il mondo conoscerà un nuovo film di Charlie Kaufman e ora, quasi fosse il neoassunto portavoce di una misteriosa volontà celeste, il colosso dello streaming per eccellenza ha fatto sì che la visione dell’autore statunitense si concretizzasse ancora una volta.

A quattro anni di distanza da quel riversamento di tormenti in stop-motion che porta il nome di Anomalisa, l’imprevedibile Kaufman, premio Oscar per la sceneggiatura di Se mi lasci ti cancello (2004) ma noto ai più per le sue collaborazioni d’esordio con il regista Spike Jonze nella creazione di Essere John Malkovich (1999) e Il Ladro di Orchidee (2002), sceglie di adattare il romanzo “Sto pensando di finirla qui” del canadese Iain Reid, aprendo nuove vie di sfogo a quelle che sono le ormai appurate ossessioni di un esponente della Settima Arte che non hai mai smesso di stupire, far discutere ed essere causa di psicanalisi premature.

Con il supporto di Netflix, Kaufman sconvolge ancora una volta la nostra presunta conoscenza dei limiti imposti dal linguaggio cinematografico, attraverso una vicenda tanto intima e spoglia, quanto strabordante di contenuti, spunti di riflessione e citazioni letterarie. Uno spontaneo flusso di coscienza solo in apparenza che, per quanto risulti innegabile l’inclusione di un’abbondanza di pensieri inconsci (affidati soprattutto alla protagonista femminile) e situazioni dal carattere onirico/surreale atti a confondere la nostra comprensione di quanto sta avvenendo sullo schermo, si dimostra frutto di un sapiente processo di scrittura e architettura della narrazione.

Sto pensando di finirla qui

Con la mente rivolta lucidamente a pensieri suicidi, una ragazza si mette in viaggio con il fidanzato, alle soglie di una tempesta di neve, per raggiungere la casa di campagna dove quest’ultimo è cresciuto e far così la conoscenza dei genitori di lui. Quello che si preannuncia essere un tranquillo weekend fuori città prenderà invece una piega inaspettata, lasciando presto spazio a un surreale senso di grottesco, contornato da elementi inspiegabili e situazioni fuori dall’ordinario. Perché la giovane Liz (o forse si chiama Louisa? Ma potrebbe essere anche Lucia) continua a ricevere telefonate da parte di sé stessa? Per quale motivo i genitori dell’amato Jake le appaiono giovani un istante e anziani subito dopo? Cosa nasconde quella casa a lei così familiare e, al tempo stesso, sconosciuta? Come si sono realmente incontrati lei e il suo compagno?

L’interpretazione di Jessie Buckley (Chernobyl, Judy) brilla in un contesto kafkiano, come personificazione del più conscio stato depressivo, posta dal regista a confronto con la massima amplificazione della sua stessa percezione. Ai suoi occhi (e ai nostri), anche il più piccolo avvenimento si prolunga nel tempo, si ripete con fare incisivamente insopportabile, offuscandole la mente e la capacità di giudizio. Quando pensiamo di aver compreso appieno il significato del film, ecco che quest’ultimo vira verso lidi inattesi e inesplorati. La misteriosa figura di un vecchio bidello, le cui mansioni quotidiane ci hanno accompagnato sin dai primi minuti di pellicola, si ritaglia sempre più spazio tra le vicende narrate, fino al raggiungimento di un ultimo atto che sconvolge per la sua amara fusione di linguaggi e significati.

Sto pensando di finirla qui
Cr. Mary Cybulski / NETFLIX © 2020

La visione del Kaufman regista, libera da vincoli di mercato e ancora una volta “incorrotta” da prospettive altrui, matura da Synecdoche, New York (2008) verso qualcosa di meno pretenzioso ma, non per questo, privo di estro, contaminazioni stilistiche o desiderio di spingersi oltre i confini della più statica interpretazione. L’autore si prende tutto il tempo di cui ha bisogno, andando a riempire anche la più comune delle sequenze (il viaggio in macchina) di riferimenti al suo bagaglio cinematografico e letterario: una rispettosa analisi del pensiero di David Foster Wallace o incursioni critiche nel film “Una Moglie” di John Cassavetes ne sono solo un rapido esempio. Nondimeno, il velo di grigio realismo che riveste da sempre la filmografia di Kaufman rivela ancora una volta nuove e audaci linee di pensiero: l’idea che la propensione a “farla finita” sia insita nell’Uomo fin dai suoi primi attimi di vita o che, addirittura, possa essere il frutto dell’influenza di qualcun’altro dimostra un fascino inquietante, così come anche il soffermarsi sulla differenza tra compagno ideale e idealizzato, troppo spesso sottovalutata.

A rischio di manifestarsi come un’opera contemporaneamente ammaliante e respingente, a tratti irritante, Sto pensando di finirla qui segna il gradito ritorno di un genio del nostro tempo, apprezzato e allontanato come il suo stesso Cinema. Acuto osservatore dell’umana contraddizione, Kaufman ci regala un nuovo tassello del suo mondo interiore: un film su tutte le storie di cui potremmo essere protagonisti, sulle scelte che abbiamo compiuto e quelle che ancora ci rimangono da compiere.