La recensione di Rifkin’s Festival, l’ultima fatica di Woody Allen
nelle sale italiane dal 6 maggio.
Rifkin’s Festival è il film giusto da cui ripartire.
In questo momento del tutto particolare, in cui il futuro del cinema ha assunto la forma di un gigantesco punto di domanda, si avverte il bisogno di alcune certezze. E Woody Allen, piaccia o non piaccia, è una certezza.
Non appena iniziano i titoli di testa di Rifkin’s Festival, rigorosamente in Windsor Light Condensed su sfondo nero (font usato a partire da Io e Annie del 1977) e con il solito, riconoscibilissimo jazz di sottofondo, si entra nella consueta dimensione del cinema di Allen, che tutti conosciamo e percepiamo familiare. Paradossale, se si considera che i punti di arrivo dei suoi film sono tutt’altro che definitivi e rassicuranti, e da questo punto di vista Rifkin’s Festival non fa certo eccezione.
Mort Rifkin (Wallace Shawn), critico cinematografico ed ex insegnante di cinema, si reca con la moglie Sue (Gina Gershon) al Festival di San Sebastián per accompagnare il giovane astro nascente del cinema d’autore Philippe (Louis Garrel). Tra tradimenti reali o presunti, monologhi sul senso della vita e situazioni surreali il canovaccio è quello che contraddistingue i film di Allen dell’ultimo quindicennio.
Rifkin’s Festival è una scelta azzeccatissima per ritornare in sala, e non solo per godere nuovamente delle nevrosi, ipocondrie e freddure di chi la storia della settima arte l’ha scritta, ma anche perché facendoci ridere ci riconsegna la magia del cinema. Citando in chiave parodistica opere come Quarto Potere, Il posto delle fragole, Persona, Il settimo sigillo, L’angelo sterminatore, 8½, Jules e Jim e Fino all’ultimo respiro, Allen delinea un parallelismo tra la dimensione del sogno e il grande cinema, ricordando come questo non possa essere ridotto esclusivamente a finestra sulle miserie della società (esilarante l’ironia sul film impegnato che viene acclamato da tutti al festival).
Il tema dell’evasione dalla realtà è centrale per il regista newyorkese, al punto da farvi risalire l’atto stesso di girare film. Come dichiara in una delle pagine conclusive della sua autobiografia A proposito di niente (qui la nostra recensione): “Lavoro tutto il giorno e di solito anche nel fine settimana […] non perché sia un maniaco del lavoro ma perché mi evita di affrontare il mondo, uno dei posti che mi piacciono meno.”
In Rifkin’s Festival è tutto estremamente chiaro: chi ama i film di Woody Allen non ne rimarrà sorpreso e non dovrà aspettarsi qualcosa di diverso, così come chi non lo ama difficilmente troverà motivi nuovi per iniziare ad apprezzarlo. Di certo rappresenta l’ennesima, raffinata dichiarazione d’amore al cinema, e, soprattutto in questo periodo, non si può fare a meno di chi dichiara amore al cinema.
VALUTAZIONE CINEAVATAR
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