LA RECENSIONE DI PIECES OF A WOMAN,
IL DRAMMA DI KORNEL MUNDRUCZO CON VANESSA KIRBY

Nascere per morire. Toccarsi per allontanarsi. Mangiare per svuotarsi. È un mondo a pezzi, tenuto insieme da piani-sequenza, Pieces of a Woman. Un gioco di opposti e (r)esistenze agli antipodi, di occhi pieni di dolori, ma vacui, mani portatrici di amore che dividono, separano, lasciano. La regia di Kornél Mundruczó prende e interiorizza i poli opposti di esseri viventi sul baratro della sopravvivenza, passando con agilità e commovente tensione tra primissimi piani pronti a dissezionare – relegandoli nel fuori campo – parti del corpo dei propri protagonisti in un’amputazione fisica e interiore, a lunghi piani-sequenza in un continuo gioco tra l’amore e il dolore, la perdita e l’unione, la presenza del ricordo e l’assenza del corpo. La perfetta aderenza del tempo del racconto con quello spettatoriale non solo apre porte prima chiuse da folate di dolore su un dramma interiore pronto a implodere, ma dà vita a piani-sequenza assurti a stralci di vita sul punto di disintegrarsi dinnanzi al buio dell’assenza. Ventidue minuti (o forse più): tanto dura il prologo di Pieces of a Woman affidando tutta la propria carica esplosiva, dilaniante, in un piano-sequenza che ti prende,  ti trascina al largo senza via di scampo, svuotandoti dentro.

Il resto del film corre e rincorre, a volte arrancando, la magia dilaniante di un incipit così straziante. Seppur svuotato da quell’alone di funesta suspense che investe la sua prima mezz’ora, il cuore dell’opera di Mundruczó batte tra le intercapedini più profonde di ogni singolo fotogramma. Un dolore latente e lacerante si annida in ogni superficie toccata, o ambiente attraversato, strisciando silente nello spazio di ogni raccordo. Al resto ci pensa la chimica perfetta tra un Shia LaBeouf mai così incisivo e tormentato, e una Vanessa Kirby magnetica, fredda, alessitimica, sublime, profonda, perfetta.

Pieces of a Woman

Le tonalità calde che investono la fotografia di Benjamin Loeb sanno di focolare domestico, quando la realtà vuole che in quelle mura imperversi il calore dell’inferno personale di due anime sperdute. Quella di Martha e Sean è una discesa negli inferi dell’anima, una catabasi in un mondo ultraterreno a cui sono stati condannati dopo la morte della loro piccola. Eden terrestre divenuto cerchio infernale, Martha e Sean sono degli Adamo ed Eva del non essere genitori. Nessun albero del peccato, ma culle vuote a maledire il loro quotidiano. La mela morsa da Martha non catapulterà i due nell’eterno dolore, ma li libera, estendendo quel ricordo olfattivo in uno visivo nel bianco e nera di una pellicola fotografica. Custode di fantasmi pronti a fare il loro ritorno sulla Terra, la fotografia sarà l’elemento scatenante che sveglierà dal torpore la protagonista, riportandola tra i mortali dopo l’Odissea tra i quasi-morti.

Gli stessi colori vivaci dei vestiti indossati da Martha fanno a cazzotti con il buio che la inghiottisce dall’interno; un dolore, questo, che si nutre dei discorsi silenti, di quell’incapacità di esternare il dolore sotto forma di lacrime, in un’apatia dilagante ora pronta a sconfinare oltre lo schermo e travolgere lo spettatore. Vige uno studio maniacale da parte di Mundruczó nel mettere in scena il teatro mortifero della perdita. Ogni movimento non è mai causale, ma transfert simbolico di un significato perfettamente aderente all’economia dell’intreccio, e la stessa prossemica tra Martha e Sean nasconde un’incapacità di ritrovarsi, toccarsi, unirsi fisicamente per sentirsi ancora vivi. La staticità quasi meccanica di Vanessa Kirby fa del suo personaggio una sorta di automa svuotato di quella piccola scintilla di umanità. Si muove per inerzia nello spazio urbano, Martha, tenendo le mani sempre ben salde sulla tracolla di una borsa, sul braccio, o su un pacchetto di piselli surgelati, uno e più scudi con cui impedire al proprio interlocutore di oltrepassare il recinto della propria interiorità distrutta, limitandolo così a guardarla dall’esterno, come si ammira una statua scheggiata e attraversata da un dolore imperituro.

Pieces of a Woman

Quella di Martha non è una sofferenza generata dalla fucina creativa di menti alacri; è un dolore, il suo, che ha radici ben salde nel mondo reale, ombre di una perdita che svuota dentro e che adesso riprendono vita adombrando gli occhi profondi di Vanessa Kirby che da azzurro oceano si fanno trasparenti, vacui.

Pieces of a Woman è dunque tutto ciò che promette il suo titolo: un puzzle di tessere disordinate che attendono uno sguardo, un odore, per tornare a prendere il loro esatto posto in questo mosaico interiore esploso nel momento di una nascita che ha aperto le porte alla morte. Il rosso del cappotto di Martha è un memento perpetuo, correlativo oggettivo rimembrante il sangue di vite rubate che non ricoprono più mani di donne bramose di potere, ma lenzuola e vasche da bagno che accolgono il corpo di giovani madri sottratte del loro nuovo ruolo di portatrici di vita.

Presentato in concorso a Venezia 77 (Vanessa Kirby premiata con la Coppa Volpi come Miglior attrice protagonista), Pieces of a Woman è disponibile su Netflix.

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