Con Petite Maman Céline Sciamma fa un viaggio nell’interiorità così leggero e ottimista da ricordare le magnifiche animazioni di Hayao Miyazaki.

Con Petite Maman la regista Céline Sciamma si allontana dalla magnificenza pittorica del precedente Ritratto della giovane in fiamme e ritrova quell’approccio intimo di Tomboy. Eppure, al contempo, la sua nuova opera non è tanto distante da quella la storia di fantasmi, di affetti e ricordi che innervava anche il suo precedente capolavoro. Vicina ai volti delle sue due straordinarie protagoniste, la regista offre uno sguardo autunnale e nostalgico sull’alternarsi delle generazioni come delle stagioni della vita. È tutto piccolo in Petite Maman: la durata del film (solo 72 minuti da gustare ad occhi aperti), le bambine che seguiamo da vicino, e la mamma del titolo. 

Sin dall’inizio il film si impregna di un sottile senso del fantastico. Come se da un momento all’altro dovesse accadere qualcosa di stupefacente. Visivamente è il realismo a fare da padrone, ma è quello che succede all’interno dei fotogrammi che apre al regno della fantasia. Siamo nello sguardo di una bambina. Con lei Sciamma trova l’innocenza e la purezza. La bellezza delle foglie ingiallite, la poesia nello scricchiolio dei legni vecchi e delle case umide sono la copertina di un romanzo che non abbiamo fatto in tempo a leggere. Ma che ci si presenta così, nella sua semplicità accogliente di una scenografia dell’animo umano.

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petite maman

L’esito è un’opera calda e accogliente come una coperta invernale che avvolge lo spettatore e lo accompagna in una malinconica storia della buona notte. È un cinema che mette il cuore davanti a tutto, anche prima dei “significati” e dei “messaggi” che, nonostante la retorica dolcezza delle immagini, sono al minimo. La regia non impone, ma propone.

Petite Maman non vuole infatti insegnare la vita, ma mostrarla in tutta la sua bellezza. Con le gioie e i momenti di dolore, e tutte le relazioni che si intrecciano mentre questi scorrono trascinati da forze inconoscibili.

Nelly è una bambina di otto anni, che ha appena perso la nonna. La conosciamo mentre saluta gli altri ospiti della casa di riposo e quel luogo che ha imparato a conoscere bene. Insieme alla mamma torna a casa dell’anziana defunta per sistemare gli ultimi oggetti rimasti. È l’abitazione in cui la madre ha passato l’infanzia, dove sono conservati ancora i vecchi quaderni di scuola e le pareti, dipinte e ridipinte, hanno impresso nelle loro venature l’effetto del tempo.

Durante una sessione di gioco Nelly incontra un’altra bambina molto simile a lei. Si chiama Marion e condivide molti tratti (oltre al nome) con la mamma di Nelly da piccola. Chi è veramente questa bambina, questa nuova amica?

È questo un incontro nello spazio e nel tempo che nulla ha di fantascientifico. È la “filìa” greca fatta immagine; quell’affinità non erotica che diventa amicizia e affetto tra le due bambine; si tramuta in fine nell’amore delle (tante) madri.

 

Petite maman

Con un’invidiabile capacità di sintesi nelle sue immagini, Céline Sciamma fa un viaggio nell’interiorità così leggero e ottimista da ricordare le magnifiche animazioni di Hayao Miyazaki. Usa la forma cinematografica per rompere i confini: come le mani che dall’esterno dell’inquadratura si uniscono in un abbraccio o le associazioni spazio-temporali ottenute con il montaggio. Petite Maman sa spiazzare e intrigare con il mistero, senza mai affossare il più autentico intento emotivo della regista.

C’è ancora tanta corporeità come in Tomboy. Fisici e pelli che cambiano mentre lo spazio resta immutabile. Sono questi i dettagli a costruire un senso di vicinanza tra la pellicola e le sedie della sala. Le piccole dita che si sporcano e giocano con gli oggetti della natura, le luci naturali e il suono del vento sulle foglie sono elementi che la regia accoglie con favore. Là dove sarebbero marginali alla storia, qui diventano il centro sensoriale di un film pienamente riuscito come esperienza da vivere con il cuore, e non con il solo senso della vista.

Il surreale si impone ancora una volta al cinema come miglior modo per descrivere la realtà interiore dei sentimenti.

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