LOGAN – THE WOLVERINE, la recensione del film con Hugh Jackman

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Hugh Jackman è Wolverine nel nuovo film di James Mangold, Logan

Il viaggio dell’eroe è da sempre, nel cinema e nella letteratura, definito dagli ostacoli che incontra.

L’avventura sul grande schermo di Logan, iniziato nel 2000, ha portato l’iconico mutante a confrontarsi con infinite prove. Wolverine è un personaggio come il Rocky di Sylvester Stallone, due caratteri con una mitologia propria, con un universo ben identificabile, ma allo stesso tempo estremamente dipendenti dalla figura dell’attore che li interpretata. E così Hugh Jackman è Wolverine e il James Howlett cinematografico (questo il vero nome del mutante) è Jackman.
Sin dalle prime inquadrature è chiaro che questi saranno i passi più dolenti di Logan, forse gli ultimi. Seguiamo le gesta di un uomo distrutto in un futuro prossimo senza più mutanti. I personaggi hanno smesso di vivere ma sopravvivono in attesa della morte e solo una piccola scintilla di speranza, una bambina dai poteri molto simili a quelli di Wolverine, riuscirà a tirare fuori il lupo selvaggio dentro Logan. Lo scontro decisivo, il più disperato si avvicina.
James Mangold costruisce una storia viscerale, durissima e iper violenta ma, al tempo stesso, ricca di passione. Alla fine della proiezione sembra di avere assistito all’unico vero cinecomic sul mutante e, forse, al vero e unico film sugli X-Men. Nonostante la brillante qualità delle precedenti trasposizioni, il Logan di Mangold è l’unica opera ad avere colto l’essenza disperata e reietta delle pagine del fumetto. I protagonisti tornano ad essere, come il genio di Stan Lee insegna, supereroi con super problemi. Il vero villan, degno delle migliori storie Marvel, non è una nemesi esterna bensì un demone interiore dell’eroe.

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Saggiamente il regista sceglie di rendere Logan una pellicola sulla dannazione e sul tentativo disperato di vivere. Un paradosso stupendo quello dell’immortale Wolverine: vivere in eterno senza sapere come fare, vedere morire le persone care, rigenerandosi di volta in volta dalle ferite esteriori e interiori. Il tono disperato e brutale del lungometraggio è perfetto per raccontare la perdita di senso dell’esistenza.
Logan è un cinecomic disperato sulla disperazione e, per questo, l’unica vera trasposizione al cinema del personaggio. La struttura, sebbene estremamente classica, gioca su un anticlimax che toglie epicità al finale. Eppure, per lo spettatore abituato ad un terzo atto sopra le righe, in cui la portata dello scontro si decuplica, osservare il processo inverso può scaturire persino la commozione. La forza propulsiva dell’idea di Mangold sta infatti nel cuore della storia, nei personaggi che la abitano, e non nell’intrattenimento visivo.
Il centro tematico è la costruzione di un nucleo familiare: la ricerca di una vita normale da parte dei figli dell’atomo, di uomini per definizione straordinari, è l’anima della pellicola. Wolverine, il Professor X, e la piccola X-23 formano una squadra inadeguata alla vita, una famiglia disfunzionale che ricorda da vicino l’immaginario cinematografico fatto di “Little Miss Sunshine”; caratteri atipici, ma sbalorditivi nelle loro interazioni.

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La fotografia di John Mathieson guadagna un punto di vista terreno. La sofferenza viene inquadrata con fascino e il dolore diventa strumento di definizione della personalità. Certo, viene da pensare che, dato il tema del film, il bianco e nero avrebbe giovato ma sarebbe stato chiedere troppo.
Però Logan è un’opera in cui il bene e il male si interrogano a vicenda. In cui le barriere morali, come nel Sicario di Denis Villeneuve, si fanno sottili e rarefatte. Per questo motivo non si può che guardare al film con sollievo e gioia. Perché alla fine del viaggio, l’eroe Wolverine ha trovato la sua pace in un cinecomic che non può lasciare indifferenti. Il gioco cinematografico dei supereroi torna a parlare della realtà (pur in chiave metaforica) e interroga lo spettatore. Questo, anche se a volte ce lo dimentichiamo, è lo scopo del grande cinema.
Gabriele Lingiardi

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