GUEST OF HONOUR, la recensione del film di Atom Egoyan

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Il cinema dell’inganno dovrebbe portare con sé un intrigo genuino, tutto intrinseco ai suoi meccanismi: di ottundimento, di percezioni (errate), di verità (al plurale). Non tanto di menzogne, quindi, perché l’inganno si gioca – se è ben giocato – proprio sulla primaria necessità di sviare dal sospetto, da ciò che si attende. Atom Egoyan conosce bene gli strumenti di questo cinema, perché negli anni gli sono stati spesso usuali: false verità che bisogna disarticolare, validare, decostruire e ricostruire; sempre ammesso, infine, di riuscire ad arrivare a un punto fermo.
Anche il suo ultimo film, Guest of Honour, si inserisce in questo solco, e riassume in sé tutti gli strumenti di un’arte dell’inganno impalcata e sontuosa, dai numerosi rivolgimenti, plot twist, inattendibilità: ma non convince, non brilla di luce propria, schiavo forse della sua stessa struttura involuta. Che vita ha vissuto il protagonista del film (David Thewlis), ispettore sanitario ligio al proprio dovere, uomo dimesso e solo? Che cosa ha (realmente!) portato sua figlia (Laysla De Oliveira), compositrice e insegnante di musica, detentrice di un segreto oscuro, a varcare le porte del carcere, oltre l’ovvietà del racconto di primo piano? Come ricostruire un passato di cui si presuppone – ingannandosi – la chiarezza, e del quale nella realtà dei fatti sembra non essere diretti testimoni pur avendolo vissuto, ridisegnato nelle maglie di una memoria che gioca brutti scherzi, che riscrive le immagini di cui si è certi, che dà per certe sonore incertezze?

Nel suo ritorno alle origini – in generale un eterno ritorno – Egoyan riprende (come già in Remember, fra gli ultimi risultati) il suo discorso sul ricordo, sulle percezioni (e sulle narrazioni, dirette e indirette) fallaci, sulla generalizzata (e misteriosa) difficoltà nell’afferrare il reale come diretta conseguenza del passato, anche quando si ricorre al conforto di mezzi di riproduzione, messaggi scritti, prove e testimonianze fotografiche e video (chi ci dice che una prova registrata non sia frutto di macchinazione?): nel film, insomma, la memoria ricostruisce ad hoc il ricordo di situazioni distorte, e col procedere della narrazione i fatti sembrano allontanarsi sempre più dal conforto di una risoluzione chiara, perché sempre più sospinti da una costante soggettivazione. Servendosi di una sceneggiatura complicata da un inanellarsi estenuante di flashback, il regista nega quasi senza rimedio un punto di vista che suoni come un diapason, che uniformi le voci, che direzioni nella polifonia scomposta. Compreso il suo punto di vista, di scrittore della sceneggiatura e di “direttore” della forma: non netto, ossia non pacificatore, ma nemmeno sagacemente luciferino – com’è, per esempio, quello tutto esterno e stilisticamente codificato del miglior De Palma, talvolta affine nelle tematiche, pur lontano nell’esposizione. Guest of Honour appare così incolore, spento.
Che cosa succede, poi, quando si dà tanto credito a fasulle certezze, e si agisce con determinazione, compiendo uno o più atti irrimediabili o criminali? Il film, che si instrada in tal senso, non fornisce una effettiva risposta, o meglio una riflessione a riguardo – o ancora, forse, non insiste realmente sulla catena di conseguenze che l’inganno e l’autoinganno genera: è forse più interessato a giocare meccanicamente sul depistaggio, sostenendo una tesi – specialmente col tramite ossessivo della tecnologia – attuale ma non più vitale, non più sorprendente. È forte, invece, pure non insistendovi adeguatamente, sulla già citata tendenza alla visione soggettiva, alla sua sbagliata caparbietà – cui difficilmente il regista fornisce un’alternativa onnisciente.
La compiaciuta accumulazione ben presto squalifica il complesso nel complicato, rimesta continuamente nel calderone del dubbio e dell’incertezza, sollecita lo spettatore a trovare una via che non sia cieca, ma non assicura – anzi felicemente ritratta – sulla percorribilità. È semplice, alla fine, stancarsi e sospingersi verso la conclusione senza più esercitare le proprie ingenue doti investigative, prendendo atto di destini già scritti, ignorandone l’oscurità.