Full time è un film impegnato e critico nei confronti del mondo del lavoro.

Full time è il The Raid del cinema “impegnato” e critico nei confronti del mondo del lavoro. L’inizio è praticamente lo stesso del film di Gareth Evans. Un minuto di riposo prima dell’inizio di una corsa senza fine e, per certi versi, violentissima. In apertura ascoltiamo un respiro, è la nostra protagonista che dorme. Suona la sveglia immediatamente la colonna sonora parte, tesissima, a scandire con i bpm il pulsare del cuore di Julie scandito dall’adrenalina. Lei è una madre separata dal marito. È in serie difficoltà economiche. Il suo lavoro in un lussuoso hotel a cinque stelle come addetta alle pulizie le dà uno stipendio insufficiente per arrivare a fine mese. Si sente inoltre più qualificata rispetto al compito che svolge. Affronta così una serie di importanti colloqui per ottenere un posto migliore che garantirebbe la tenuta economica della famiglia. 

La mattina lascia i figli a una persona che glieli possa tenere mentre è lavoro. Per otto ore comanda un team di persone nell’hotel seguendo un piano di lavoro rigido che non ammette errori. Inoltre deve trovare anche il tempo per portare avanti i numerosi incontri di selezione per il nuovo lavoro tenendoli segreti. Il problema è che tutto questo accade mentre a Parigi fervono gli scioperi dei trasporti pubblici! Settimane in cui la città è paralizzata, e lei senza disponibilità di un veicolo proprio dovrà trovare il modo di cavarsela.

full time recensione

Full time e così un film estremo, che avrebbe potuto giovarsi di un maggiore rigore proprio nella sua scelta adrenalinica. Il regista Éric Gravel non doveva dare respiro invece, soprattutto nella parte centrale, lo fa. Questo è forse l’unico difetto sostanziale di un’opera per molti versi impeccabile. Più che denunciare le difficoltà a sbarcare il lunario vuole immergersi nella vita terribile e senza riposo di una donna come le altre.

Più che un film d’azione è un film di azioni. Sono tutti quei gesti che vanno compiuti quotidianamente per permettere alla giornata di arrivare alla fine senza intoppi. È anche un ritratto della solitudine esistenziale che soffoca e schiaccia chiunque sia da solo ad affrontare le regole della società. Si cerca lavoro come un assetato cerca l’acqua nel deserto. Tutto nasce dal più grande paradosso: il salario, seppur minimo, non basta a garantire nemmeno la sussistenza. Come si può quindi realizzare se stessi, essere veramente donna e madre, se l’intera giornata è trascorsa solo a sopravvivere un altro giorno? 

Il tema del diritto al lavoro ritorna così in questo film prepotentemente e la ricerca di Julie, la sua lotta quotidiana, è uno sforzo di dignità. Perché è questo che accomuna i lavoratori da tutto il mondo, e che quindi rende universale il film: il vivere in funzione del lavoro. Purtroppo non il lavorare in funzione della vita. Un messaggio non certo originale e spesso contemplato all’interno delle riflessioni socio politiche riguardanti l’occupazione. Spesso abbiamo vissuto questo tema razionalmente. Qualcuno ha avuto la sfortuna di vivere le difficoltà della protagonista sulla propria pelle. In ogni caso Full Time è un’opera che riesce a far risuonare nelle ossa l’ansia e l’alienazione esistenziale (piacerebbe ad Antonioni, scommettiamo). 

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È splendido il finale, che non sveleremo, dove l’intero mondo sembra però riproporre le emozioni che Julie vive sulla sua pelle. Perché oltre le corse adrenaliniche, girate e montate come un film di Michael Bay, Éric Gravel dimostra una grandissima attenzione anche all’aspetto emotivo. Tanto che ci basta un’associazione di immagini come il profilo della donna di fronte ai binari mentre il treno è in arrivo, per capire lo sconforto e temere il gesto estremo. 

Tutto questo non viene mai detto, ma solo mostrato con il corpo. Full Time è quindi un grande esempio di cinema che non fa prediche, ma si immerge in una realtà che ingrandisce così tanto da portarla fuori dallo schermo. La città è ripresa come un gigantesco labirinto che schiaccia e opprime, i cavi del tram sembrano una ragnatela come in Enemy di Denis Villeneuve. 

Saltare da un mezzo all’altro, spostarsi pur restando fermi nel proprio isolamento, è una prassi che viene rotta dallo sciopero. C’è quindi un accenno di solidarietà tra lavoratori, di rapporti che si possono venire a creare e che sono salvifici: se ci si guarda negli occhi si capisce di essere nella stessa situazione ci si aiuterà a vicenda. 

Gravel non ha però grande speranza in questo, vede le persone troppo isolate nei propri problemi. La determinazione del singolo non sempre basta, a volte serve anche la fortuna. Altre volte serve solo fermarsi un attimo, respirare, e lasciar fare alla vita.

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