La danza delle emozioni si scontra con una retorica che al posto di vestirsi di musica e lacrime, porge le spalle alla completa partecipazione affettiva dello spettatore. E così Evan Hansen rimane ancora una volta solo.

Una musica può fare”… già, quante cose può fare una musica? Max Gazzé le ha elencate in maniera poetica facendole danzare al ritmo di un brano che entra in testa per non uscirne più. Un’abilità magica, esorcizzante, a tratti apotropaica, capace di prendere per mano le nostre emozioni,  custodirle come reliquie e farle volare via.
Una musica può dar voce a parole tenute nascoste, emozioni seppellite, discorsi sotto forma di macigni impossibili da espellere, che rimangono sul petto lasciandoci senza fiato. Sono voci interiori che nessuno ascolta, un dialogo prezioso e intimo con noi stessi, che viaggiano tra mente e cuore, pensieri e battiti cardiaci.

Corrono alla velocità della luce e si insinuano tra le nostre onde celebrali, stuzzicando la nostra interiorità, facendoci il solletico o urlandoci sotto forma di memento musicali i dolori che a fatica teniamo a bada. E così, in quella scatola magica che è il cinema, quando a insinuarsi tra gli inframezzi dei raccordi di montaggio, è un brano cantato a cuore aperto, ecco che il petto si squarcia e tutte le nostre emozioni vengono a galla.

Caro Evan Hansen è un canto doloroso, di mille inascoltati nascosti dietro le maschere più diverse e disparate. Non più commedia dell’arte, ma vita che si fa palcoscenico teatrale, attraversato di corsa da piedi pronti a fare lo sgambetto ad anime fragili e sensibili.
Evan Hansen non parla, canta, e lo fa in un monologo interiore a cui pochi possono accedere. Lo spettatore siede sulla propria poltrona nel suo ruolo privilegiato di testimone, pronto a registrare attimi di vita narrati con il potere della cinepresa, enfatizzati nella loro carica emotiva da brani che sanno cogliere il momento, traducendo in versi e armonie sprazzi di vita che altrimenti rimarrebbero incagliati tra i denti, bloccati tra una medicina ingoiata una dopo l’altra.

The perks of being Evan Hansen

Caro Evan HansenEppure in quel prologo così potente, in quell’apertura di sipario su uno spettacolo dell’esistenza illuminato da luci e ombre, la preziosità del momento viene scalfita da una ridondanza di parole che ne depotenzia la bellezza. Come un discorso alacre, inedito, capace di catturare l’attenzione delle folle, che una volta ripetuto a ruota perde della sua originalità scadendo nel reiterato, così l’incipit musicale finisce per perdere la sua portata empatica. Durando più di cinque minuti, con lo stesso ritornello ripetuto ad libitum, l’apertura di Caro Evan Hansen raccoglie e anticipa tutto ciò che funziona a tratti nel corso del film.

I momenti puri, di profonda introspezione, vengono indeboliti da una loro inutile ripetizione, quando cantata, quando dialogata. La bellezza di un concetto sta nell’intensità con cui viene comunicato di colpo, senza preamboli o fastidiosi ritorni. Il fatto che il contenuto di un brano, o di una confessione, venga riproposto una seconda volta nella sua versione cantata o parlata, va a screditare ciò a cui abbiamo appena sentito e assistito, frenando la potenza di un colpo assestato con millimetrica precisione al cuore. 

Cantare la realtà

Caro Evan Hansen

Grazie a un corollario attoriale perfettamente in parte, le emozioni non navigano in mare aperto in balia delle onde. Ogni interprete, da Amy Adams, allo stesso Ben Platt, passando per Kaitlyn Dever e Julianne Moore, sono capitani di velieri emotivi pronti a raggiungere il porto dello spettatore. Crediamo a ciò che dicono, e a ciò che cantano, perché ogni singola sillaba è supportata da un naturalismo interpretativo che rende tutto ciò che passa sullo schermo il perfetto contraltare del mondo che scorre al di fuori di esso. Ed è così che si vuole mostrare Caro Evan Hansen: un rappresentazione in riduzione di un universo ancora segnato da bullismo, pregiudizi, incapacità di stabilire relazioni interpersonali che isolano i ragazzi, relegandoli all’interno della propria sfera personale. Una bolla che si innalza silenziosa, rotta soltanto dal battito di un cuore che pulsa al ritmo di una canzone che si fa inno degli inascoltati, di coloro che salutano dalla finestra nella speranza di una risposta, di un cenno, di uno sguardo amico. Un’incapacità di sentirsi parte di un sistema, di una realtà più ampia, suggerita con furbizia anche dal regista Stephen Chbosky (Wonder, Noi siamo infinito), grazie a piani ristretti che isolano il protagonista, impedendogli di condividere lo spazio di un’inquadratura con altri, a eccezione di sua madre. Una regia quasi parlante, che accompagna un universo rinchiuso nel silenzio, e che solo attraverso la musica può lasciarsi andare a confessioni indicibili.

Nulla deve intralciare il cammino di Evan in questa ricerca all’accettazione di sé. La fotografia gioca pertanto su un’illuminazione chiara, nitida, sempre attenta a mantenere scevro di ombre lo sguardo di chi si sente già abbandonato a vivere nel buio. La luce della macchina da presa accende la vita di questi ragazzi, segna loro il cammino da seguire, sostituendosi a quella luce interiore che piano piano torna a bruciare in ognuno di loro, alimentata da speranza, illusione, e un tocco di manipolazione della realtà.

Cantami o musa… del solo Evan Hansen

Un gioco di specchi tra ciò che è reale, e ciò che si presta a realismo cinematografico, in cui tutto rientra perfettamente al proprio posto in un incasellamento di elementi formalmente privo di difetti, ma singhiozzante a livello emotivo. Ciò non significa che Caro Evan Hansen non commuova, anzi. Il suo obiettivo di parlare diretto al cuore del pubblico, stabilendo un ponte privilegiato con chiunque non si sia sentito all’altezza, o ancora non senta di meritarsi un posto nel mondo, forte di brani musicali dal forte impatto empatico. Eppure, questo coming-of-age in formato musical, scritto da Benj Pasek e Justin Paul non colpisce quanto avrebbe potuto. Allunga il brodo di un sugo che era già cotto alla perfezione. Si riscontra in questo tentativo di traduzione del linguaggio teatrale a quello cinematografico, un’esacerbazione a livello di retorica che rende melensi, e a tratti leggermente pesanti, momenti che se ridotti nella loro essenzialità avrebbero altrimenti coinvolto lo spettatore nella spirale emotiva che si tenta di creare attorno ai protagonisti; protagonisti le cui dinamiche rimaste sospese, e mai veramente chiusesi, finiscono per allontanare lo spettatore piuttosto che avvicinarlo sia empaticamente, che psicologicamente. 

È un mondo che vorrebbe scuotere il proprio pubblico, con la stessa forza con cui Evan Hansen vede muoversi tremolanti le propria dita, segno di un disagio e di una timidezza che il regista sa bene cogliere ed enfatizzare con riprese in dettaglio e in primissimo piano. Eppure, il film diretto da un autore così attento alle dinamiche giovanili e adolescenziali come Chbosky, è una canzone che si lascia amare nell’arco di un ascolto per poi finire in fondo alla playlist dei brani riprodotti e mai salvati. Emoziona, ma non scuote. Parla, ma non comunica. Colpisce, ma senza che le emozioni si bagnino di lacrime. È una frattura a un braccio senza rottura, Caro Evan Hansen. Fa male, ma il dolore passerà, così come il ricordo del film.