Quante volte capita di sentirsi o persino di trovarsi nei panni di uno studente che non sa come iniziare un tema,  di uno scrittore che non sa cosa scrivere nella prima pagina di un libro, di un giornalista che non sa che titolo dare al suo articolo? La “sindrome della pagina bianca” è sempre in agguato, ma il blocco dello scrittore non solo è fisiologico: è necessario per arrivare a quell’agognato “Eureka!”, che prima o poi illuminerà lo scrittore, come un lampo a cielo aperto. Ma quell’eureka non sembra arrivare mai per Mort Rifkin, il protagonista dell’ultimo film di Woody Allen, Rifkin’s Festival (QUI la nostra altra recensione): un ex insegnante di cinema e amante del cinema classico europeo e dei film sottotitolati, che vive a New York e che è sposato con Sue, una donna ormai scostante, che è a capo di un ufficio stampa di un famoso regista francese.

Rifkin's Festival

Mort strappa continuamente la prima pagina del libro che sta cercando di scrivere da anni,  metafora della continua, infinita e faticosa ricerca di se stesso, il sé di un uomo insoddisfatto, perfezionista, realista, pragmatico, cinico, ma allo stesso tempo introspettivo e sognatore; un uomo che compie un meraviglioso viaggio dentro la sua anima, ripercorrendo tutta la sua vita. Mort racconta ad uno psicoterapeuta quanto accaduto in Spagna in occasione del Festival internazionale del cinema di San Sebastian.

Quello di Rifkin si può definire un viaggio con una dimensione trasversale “meta” che attraversa tutto il film: “meta” è, infatti, la dimensione filmica per le tantissime citazioni cinematografiche presenti, da Fellini a Bertolucci, da Truffaut a Godard. Questa dimensione metacinematografica oltrepassa lo schermo e fa catapultare i protagonisti dal “Rifkin’s Festival” al Fino all’ultimo respiro di Godard.

Ma è “meta” anche perché sono attuali le riflessioni sul rapporto tra un cinema spesso qualunquista e retorico e l’arte vera, “meta” è anche il viaggio che Mort compie dentro le sue infinite fragilità.

 E questa dimensione meta è declinata oniricamente attraverso la contrapposizione tra le scene a colori e quelle in bianco e nero, che fanno ogni volta entrare lo spettatore in una dimensione “altra”, quella degli strani sogni o dei desideri di Mort, ma anche dei suoi ricordi di infanzia, delle sue paure di esclusione dal rapporto complice che la moglie ha con il regista francese, o dei suoi svelamenti, come quando scopre/immagina ciò che il fratello pensa realmente di lui (in realtà specchio dei suoi pensieri), cioè che abbia paura di fallire ….perché per lui “fallire significa morire”.

Ed è proprio la partita a scacchi con la morte (citazione da Il Settimo Sigillo), rappresentata in modo grottesco, quasi beffardo, ma incredibilmente crudo, che svela a Mort cosa sia davvero la morte rispetto alla vita e quale sia l’importanza della sua accettazione, da cui non si può prescindere per godersi la vita. E se la vita è vuota, allora va riempita, anche di banalità e normalità di tutti i giorni, di una vita convenzionale, che smetterà di renderlo infelice quando lui accetterà l’idea del malessere, della vulnerabilità,  della fallibilità umana e quando smetterà di chiedersi il senso della fatica che costringe Sisifo ad arrivare ogni volta in cima con il masso sulla schiena.

Rifkin's festival

La dimensione surreale e paradossale che attraversa Rifkin’s Festival e che è un segno di riconoscimento dei film di Woody Allen, appartiene anche alla fine del matrimonio di Mort con la moglie, relazione che si rivela essere una farsa, così come è una farsa il rapporto che l’affascinante dott.ssa Jo ha con suo marito, pittore con il vizio dell’alcol e delle donne. Entrambi, Mort e Jo, sono incastrati in questi matrimoni-trappole, da cui vorrebbero scappare ed è quello che provano a fare in uno dei diversi sogni di Mort, ma la porta è bloccata: a fermare questa fuga d’amore ci sono le convenzioni, forse c’è il conformismo e il qualunquismo che il protagonista stesso tanto condanna nel cinema attuale.

E il signor Rifkin forse riesce a “fare un patto con le sue emozioni” alla fine del suo viaggio per un festival, che però diventa il Suo Festival, una rassegna cinematografica, per certi versi bizzarra, della sua vita, di cui egli stesso diventa finalmente uno spettatore consapevole.

 

Recensione a cura di Rosa Lagravinese