Bridgerton 2: Le Donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto
Così cominciava il più grande poema mai scritto da Ludovico Ariosto, l’Orlando Furioso, e per lo meno all’apparenza, molto c’è in questi versi della serie Tv più acclamata su Netflix nelle ultime settimane. Più che di audaci imprese in battaglia trattasi qui però di audaci imprese di corteggiamento, ed è tutto intorno al tanto agognato matrimonio che si svolgono le vicende dei membri della famiglia Bridgerton, visconti da generazioni. In una Londra quasi immaginaria del 1814, le giovani donne dell’alta società si sfidano a colpi di balli, pizzi e merletti alla conquista del rampollo più facoltoso, o – dalla parte degli uomini – della dama più preziosa.
Vero è che (povere creature) non tutte le dame possono permettersi, come l’invidiata Daphne Bridgerton nella prima stagione, di essere un “diamante”, vale a dire la prescelta dalla Regina in carne e ossa: di ambita famiglia, di bell’aspetto e di delicate sembianze, così da destare l’interesse di tale duca o tal barone. Se, come la povera Penelope Featherington, nasci piccola, grassottella e magari la tua famiglia è in decadenza, finisci per essere “invisibile”, “tappezzeria” in salotti dove tutto ciò che conta è mostrarsi, come merce di scambio in una grande fiera delle vanità. A dispetto di tutti però, Penelope, (e il mito che rievoca questo nome non giunge proprio a caso) trae vantaggio dalla sua invisibilità per ergersi a divenire colei che tesse la trama, silenziosamente, delle tanto attese cronache “rosa” firmate Lady Whistledown. Voce dal volto sconosciuto, tutti si chiedono chi ella sia mai, conferendole un immenso potere, poiché, oltre a far tremare le nobili famiglie con i suoi pettegolezzi, arriva a far vacillare perfino la reputazione della Regina stessa, con il solo potere della sua penna. Ogni puntata inizia e finisce con i resoconti di Penelope/Lady Whistledown, voce fuori campo molto efficace per la struttura narrativa della serie, tira le fila di tutti gli episodi e prepara lo spettatore a quello che verrà. Proprio come Penelope, tutte le donne di Bridgerton 2 lottano con i mezzi che hanno a disposizione per salvarsi: sia essa una madre, o una fanciulla in età da marito, ognuna con l’abilità che più le appartiene, tutte agiscono in segreto per una sola ed unica ragione: sopravvivere.
Oltre al tema che sarà caro al (sensibile) pubblico femminile, altro argomento affrontato dalla serie – e forse la chiave del suo grande successo – è sicuramente la ricerca e la conquista dell’amore. Tutti i personaggi della saga hanno un solo obbiettivo che è sì trovare un posto in quella società tanto difficile, rinforzare il proprio titolo nobiliare, o acquisirne di più prestigioso, ma soprattutto è quello di struggersi alla ricerca del vero amore, oscillando nell’eterno conflitto fra mente e cuore. La seconda stagione vede infatti il primogenito Anthony (Jonathan Bailey) alle prese con la ricerca della sua viscontessa, la donna che dovrà portare il suo cognome ma, allo stesso tempo, farlo innamorare.
La lunga tenzone fra il protagonista e la bella fanciulla indiana, Kate Scharma (Simone Ashley) sicuramente conquisterà lo spettatore nell’attesa degli eventi, ma finisce talvolta per essere un po’ dispersiva e cela tratti dì sceneggiatura un po’ debole, fatta di dialoghi poco incisivi e tanti sguardi ammiccanti che non fanno che rinviare l’incontro dei due potenziali amanti. Inoltre, malgrado un tentativo registico dì aumentare il pathos fra i due innamorati, con l’uso massiccio dei primi piani e ripetute inquadrature sui volti e sugli sguardi, viene meno un totale coinvolgimento emotivo tipico del vero dramma. L’accoglienza della serie resta comunque molto alta: una struttura narrativa semplice, dì facile ricezione presso il vasto pubblico, un montaggio lineare, privo di artifici tecnici o particolari trovate registiche, rimandano quasi allo stile di una vera e propria soap-opera: una soap-opera in veste drammatica e in abito da sera ottocentesco che suggella al tutto il suo ampio successo.
Siamo “sulla carta” infatti nel 1815, così come nei romanzi di Julia Quinn a cui si ispira l’intera saga, ma puntata dopo puntata il pubblico si accorgerà che le vicende si svolgono in una dimensione quasi a- temporale, altra probabile grande intuizione di Shonda Rhymes, che spogliando le vicende da una vera collocazione storica acquista una più ampia libertà nella caratterizzazione dei personaggi e i loro comportamenti, la rappresentazione del sesso, così come nelle scelte musicali. Proprio come la prima stagione, che aveva visto la presenza di cover di brani moderni rivisitati in chiave ottocentesca, anche Bridgeton 2 infatti continua a inserire nei suoi episodi canzoni di forte impatto emotivo (“Material Girl” di Madonna una delle perle migliori) inserendoli in maniera furba e immersiva soprattutto nelle scene dei “balli”.
Nella Londra di Bridgerton, quindi, non è importante sapere se sia davvero esistita una regina nera, amante del vizio e addobbata con bizzarre parrucche di Simpsoniana memoria, o se fossero diffusi in quel periodo matrimoni fra inglesi e coloni indiani (come le sorelle Scharma).
Non è rilevante interrogarsi se sia di grande modernità che nobiluomini e nobildonne si abbandonino ai piaceri senza curarsi delle conseguenze, lottino per poter vivere le proprie passioni, anche andando incontro allo scandalo e all’espulsione.
In un mondo dove la donna è nata “per acquisire un altro cognome, e l’uomo per portare avanti quello da cui proviene”, alla fine “tutto è bene quel che finisce bene” e fa sognare il grande pubblico.
Recensione a cura di Valentina Menocci