Alejandro González Iñárritu torna a Venezia con Bardo,
un film personale e intimo sulle contraddizioni umane.
Con Bardo Alejandro González Iñárritu intraprende un viaggio personalissimo all’interno delle sue ossessioni e delle contraddizioni umane. Si apre allo spettatore, ce ne rende partecipe. Per farlo passa dal suo solito realismo magico a un surrealismo spinto, spesso grottesco. L’inizio è folgorante e felliniano. Un’ombra corre nel deserto. Compie un balzo lunghissimo. Quando riatterra capiamo di essere in una soggettiva di un corpo smaterializzato (dovremmo vedere le braccia e le gambe, ma quell’ombra non ha un fisico). La soggettiva di un’anima. È quello che sarà tutto il film.
Subito dopo assistiamo all’inizio di un altro essere umano. Un neonato che viene accudito dai medici. Loro lo ascoltano, capiscono la sua stizza. Il bambino si è convinto che il mondo sia una merda e vuole rientrare nell’utero materno. Così fa, lasciando nel papà e nella mamma però delle tracce che li seguiranno a lungo nella loro vita.
Un uomo alla ricerca della realtà
Bardo è si trasforma poi nella storia di un giornalista, riscopertosi documentarista. Un uomo alla ricerca della realtà, come se questa corrispondesse a una forma di verità. Invece per Iñárritu il vero, l’autentico, è quello che è nascosto. Che si trova all’interno della coscienza di ognuno.
Bardo cambia ancora forma e diventa un viaggio in un limbo personale, tra sogno e desiderio, che va scoperto man mano lasciandosi trasportare nelle tre abbondanti ore. Un’opera fortemente cinematografica, con piani sequenza e grandangolo costantemente illuminati dalla miglior luce del sole. Peccato però che l’opera sia piuttosto discontinua e, nel suo complesso, molto meno sottile di quello che pretende di essere.
Fortemente incentrato sul tema dell’identità, Bardo crea un mondo in cui Amazon è pronto a comprarsi pezzi di territorio (grande idea), e in cui appartenere a una nazione è quasi più importante che semplicemente esistere. Nel regno dell’ossimoro si festeggiano le sconfitte, si danno premi deridendo il vincitore, si rincorre la nostalgia della giovinezza solo per cambiarla. Quando si chiede però di essere sia messicani che americani, la contraddizione è troppa. La casa di uno non può essere dell’altro.
Ritorno al cinema
Così Alejandro González Iñárritu ritorna a un cinema fortemente politico, e polemico, che ha richiesto cinque anni di pensieri e di lavorazione. Troppi, forse, arrivando oggi a raccontare un’America che ha già pagato le conseguenze di quella divisione che lui si propone di raccontare.
Anche sotto il profilo immaginifico restano potenti le immagini fino a che non si scorgono le troppe derivazioni. Oltre al già citato Fellini, Bardo sembra un remake di Il posto delle fragole di Ingmar Bergman. Addirittura riprende l’idea della porta verso un altro mondo di The Tree of Life e i discorsi filosofici sulle terrazze, direttamente da Birdman.
Se un film sceglie di correre il rischio di restare soffocato sotto l’eccessiva simbologia, deve almeno possedere la capacità di creare associazioni di pensiero nuove.
Invece, nonostante la magnificenza visiva, si finisce Bardo con la dolceamara sensazione di un collage di suggestioni ben fatto, molto di cuore, ma poco ragionato. Una confessione cinematografica che avrebbe meritato la censura di un produttore, per evitarci di naufragare su un finale eccessivamente intimo, emotivo, ma in fondo non necessario.