AMERICAN SNIPER, la recensione

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bradley cooper american
Ad ottantaquattro anni suonati Clint Eastwood ha sempre in mano un fucile. Quello stesso impugnato nella leggendaria trilogia di Sergio Leone viene consegnato metaforicamente nelle mani dell’attore Bradley Cooper, fresco di nomination agli Oscar come miglior attore protagonista, nel film American Sniper, che porta sul grande schermo la vera storia del cecchino americano Chris Kyle, soprannominato Leggenda, con i suoi 166 centri umani ufficiali.
“Dio, patria e famiglia. Non una pecora o un lupo, ma un pastore tedesco che protegge il suo gregge.” Parole forti che hanno fatto storcere il naso a molti critici come il famoso Mereghetti. Un Clint troppo patriottico? Fesserie. Nessuno si ricorda il divertente dialogo pubblico contro l’interventista Obama e la sedia vuota? Bastava poi leggere l’intervista rilasciata a Deaglio sul Venerdì di La Repubblica per accorgersi del filo rosso di empatia che ha legato il vecchio leone del cinema alla vita di Chris Kyle. Un uomo che ha scelto di servire il paese dopo le Torri Gemelle, tenendo con sé la Bibbia che forse, in realtà, non aveva mai letto. Non un eroe, ma bensì un soldato, che si occupava della sicurezza dei suoi commilitoni cioè del suo gregge.
Certo un militare, ma non un esaltato, che quando ha issato forse superbamente la bandiera di The Punisher ha visto morire due suoi compagni. È sempre la realtà che ti riequilibra.
Un uomo che ha avuto il suo punto di rottura ed è tornato dalla moglie e dai figli. Un uomo che attraverso il suo percorso di vita è arrivato a scegliere di continuare ad aiutare gli altri, quelli martoriati, con turbe mentali, e coloro che portano sulla pelle i segni di una guerra spietata e inspiegabile.
Non è un film che analizza la psiche del reduce, ma, è il cammino vero di un uomo che alla fine dice: «Sono pronto a incontrare il Creatore e a rispondere di ogni singolo colpo sparato».
Un pastore tedesco che proteggeva il suo gregge, le persone a cui voleva bene. Questo era il suo modus operandi, pur sempre conscio del male che esiste in una guerra.
Un film non retorico, non spettacolare e neppure sentimentale. E di questo tanto di cappello al vecchio Clint che non contrappone, i “cattivi islamici” con gli ideali di libertà dell’Occidente. Qui sta la bravura del cineasta che si è calato, immedesimato, nei panni del protagonista. Eastwood ha ripercorso con i flashback la vita di Kyle, la sua tradizione ed educazione, facendoci cogliere perché un americano arriva a scegliere di andare in Iraq e combattere per il proprio paese. Il regista californiano ha voluto incontrare di persona il padre di Kyle per conoscere più a fondo l’anima dell’uomo e la morale del soldato.
Delicata ed intelligente la scelta di non far vedere la sua morte ma di utilizzare le immagini vere della parata funebre.
Una grande pellicola, candidata all’Oscar come ‘miglior film’, realizzata da uno straordinario regista che, incomprensibilmente ‘dimenticato’ dalla giuria degli Academy Awards nel quintetto della categoria ‘miglior regia’, rimane senza dubbio uno degli autori più rilevanti della storia contemporanea del cinema americano.
Gianni Foresti