È stata la mano di Dio è l’emozionante ritorno al cinema di Paolo Sorrentino.
Recensione del Bianconiglio Lab
“Anno dopo anno, e secolo dopo secolo, da ogni luogo della terra gli adoratori di Napoli sono venuti al suo […] golfo” (John Lawson Stoddard).
Ed è al Golfo che dopo anni di assenza fa ritorno Paolo Sorrentino, figlio di Napoli e delle sue contraddizioni; un ritorno compiuto con È stata la mano di Dio, saggio visivo sulla propria città con i suoi mille contrasti, il tutto filtrato dagli occhi del liceale “Fabietto” Schisa, alter ego sognatore dell’autore, incastrato in una vita che non lo rende più felice, ma dalla quale non riesce a scappare.
Un racconto di formazione che il regista utilizza come autentico cassetto dei ricordi, in un turbinio di risate e lacrime da cui lo spettatore non può che lasciarsi travolgere: il protagonista si rivela a noi nello stesso momento in cui si rivela anche lentamente a se stesso.
Il golfo, fin dai primi momenti della pellicola, diviene per il giovane protagonista sia ponte di fuga verso il mondo esterno che lo affascina e lo attira, sia barriera protettiva dalle insidie dell’ignoto; analogicamente la propria casa diventa luogo da cui fuggire nel tentativo di trovare sé stesso lontano da una famiglia che a volte non lo comprende, ma che diviene rifugio insostituibile quando il mondo diventa troppo grande per lui.
Con È stata la mano di Dio Sorrentino riprende alcuni elementi tipici dei suoi primi lungometraggi, abbandonando quella ricerca a volte smodata della forma estetica che lo aveva accompagnato nelle ultime opere, per riappropriarsi di uno spirito più intimista e puramente narrativo: mette al centro della pellicola i personaggi e le loro relazioni, con i paesaggi e la città che prendono vita divenendo fondamentali per la narrazione stessa.
La sua estrosità artistica la riversa a pieno nella creazione di personaggi caricaturali ed eccessivi, connotati da una forte teatralità espressione di quella variegata e potente umanità tanto cara alla tradizione artistica napoletana. Fabietto e la sua famiglia divengono il fulcro di tutto il racconto, ognuno con i propri tormenti, delusioni e particolarità, ma con rapporti sempre schietti e talvolta grotteschi, che permettono ai personaggi di crescere dopo ogni scambio di battute.
Le ottime prove attoriali di tutto il cast elevano una scrittura già di per sé ottima e ben sviluppata, aiutate da un montaggio sapientemente riflessivo in cui il regista indugia con lunghe inquadrature sui volti dei suoi protagonisti, con cui lo spettatore non può fare a meno di empatizzare ed immedesimarsi. La sceneggiatura mette al centro la dualità di ogni singolo personaggio, mai banale o prevedibile, con l’esteriorizzazione delle contraddizioni di una città meravigliosamente dannata come Napoli: ognuno dei protagonisti è filosofo e tifoso, intellettuale e analfabeta, sognatore e conservatore.
Nonostante la ritrovata centralità di narrazione e personaggi, Sorrentino non rinuncia a dotare la pellicola di immagini e inquadrature che si amalgamano alla perfezione con la storia raccontata, con una fotografia molto calda sia durante le scene in interni sia in quelle in esterni. Scenografia e costumi vogliono esplicitamente omaggiare gli anni ’80 napoletani ed italiani senza che però ciò comporti una cura ossessiva dei particolari, con riferimenti sempre vividi ma mai invadenti.
Centrale in È stata la mano di Dio è anche un tema molto caro all’autore: il rapporto tra sacro e profano, o meglio lo svisceramento del ruolo del sacro nella vita anche laica dei suoi personaggi e, dunque, di ognuno di noi. Il misticismo di un personaggio come ‘O’ munaciello’, la cui presenza apre e chiude la pellicola, si contrappone alla laica sacralità che il personaggio di Maradona riveste per Fabietto e per tutti i Napoletani: Sorrentino lo lascia solo sullo sfondo della storia, ma rendendolo in qualche modo la costante della vita dei protagonisti, dal suo atteso arrivo alla vittoria del campionato, accompagnandone le gioie e i dolori.
Vi è una quasi totale assenza nella pellicola di qualsiasi tipo di commento musicale: non viene mai fatto sentire cosa provenga dalle cuffie che il giovane protagonista indossa costantemente durante le sue infinite passeggiate notturne in giro per Napoli, se non nell’ultima scena in cui la voce di Pino Daniele racconta l’ambivalente rapporto di Fabio con la propria città. Sorrentino preferisce piuttosto affidarsi ai suoni ambientali, spesso utilizzati in forte funzione anempatica rispetto alle esperienze vissute dal suo alter ego: una televisione accesa in sottofondo, una barca rubata che sfreccia sul pelo dell’acqua, una folla rumorosa di tifosi dopo la vittoria dello scudetto.
Un’opera che esprime genuinamente l’amore viscerale del regista per il cinema e le infinite possibilità di espiazione che lo stesso permette: Fabietto dice di aver visto pochi film nella sua vita, ma vuole comunque fare il regista da grande capendo intuitivamente che attraverso il cinema potrà dire cose che con le semplici parole non potrà mai riuscire ad esprimere.
In conclusione, È stata la mano di Dio (presentato a Venezia78) è un film che trova la somma del modo di raccontare la vita da parte del regista napoletano: la forma e la sostanza si ritrovano in un racconto di crescita mai banale, in cui gli incontri e gli scontri con personaggi e luoghi sempre imprevedibili permettono ad un giovane Fabietto/Paolo di instradarsi sofferentemente verso il mondo, accompagnato dalla profonda gratitudine per il luogo e le persone che lo hanno cresciuto e protetto.
Recensione a cura di Guido Borrelli