Conversazione sul cinema tra il filmmaker e critico cinematografico Luciano Attinà e il regista underground Davide Pesca. Ecco cosa ci hanno raccontato!

Il tuo cinema presenta una poetica della violenza che rimanda, da un lato, al cinema underground e autoprodotto e, dall’altro, al mondo dei generi più canonico. L’utilizzo dei P.O.V. e di una fotografia spesso impostata su semplicità e immediatezza, tipiche di quel cinema estremo che gioca col concetto di snuff movie (inteso qui come una categoria dell’immaginario), mi dà l’impressione che il tuo lavoro sia anche una riflessione sul rapporto che lo sguardo spettatoriale intrattiene con la rappresentazione della violenza. Se è così come ti poni rispetto a questo rapporto?

Il mio modo di far cinema lo considero voyeuristico, intimista, introspettivo e analitico. Non mi preoccupo delle canoniche regole cinematografiche, come scavalcamento di campo, etc. io mi immedesimo in un fantomatico individuo presente, come se fosse invisibile durante la situazione e i suoi occhi sono la videocamera. Questo individuo vuole vedere tutto quello che sta succedendo senza accontentarsi di guardare da lontano e se quello che succede è un omicidio o comunque una sequenza violenta, sanguinosa o sexy. Il suo occhio vuole vedere di più e lasciare all’immaginazione il meno possibile.

Per quanto riguarda la violenza, parto col dirti che da sempre adoro il cinema horror e in particolar modo quello splatter. Preferisco la graficità e l’immediatezza piuttosto che la suspense o la lunga attesa per arrivare troppo spesso ad una sequenza sanguinolenta a malapena accennata o spesso solo suggerita. Non fraintendermi, mi piace l’horror in tutte le sue forme e adoro anche film al di fuori del contesto horror, soprattutto amo il cinema orientale, ma ho una predilezione per il genere splatter.

Credo che i miei film si discostino molto dai vari finti snuff, o pellicole estreme che vogliono l’effetto shock a tutti i costi. Non lo dico per mettere i miei su un piano superiore, solamente lo trovo differente. Io da una immagine, sogno o altro mi immagino uno sketch o situazione e la estremizzo. Non lo faccio con l’intento di impressionare a tutti i costi, bensì di mettere in pratica i miei effetti, perché ciò mi piace dannatamente.

Un tema fondante di ogni tuo film è la rappresentazione del corpo e la sua violazione. Vi sono infatti nella tua opera riferimenti costanti al body horror e al cyberpunk giapponese – il tuo ultimo lavoro Re-Flesh è forse il più chiaro a riguardo. Ti interessa di più l’idea della violazione del corpo come metafora del corpo sociale intaccato dalla corruzione della civilizzazione tecnologica o l’idea del corpo umano inteso come insieme di materiali organici da comporre e scomporre in nuove forme astratte e aliene?

Più che la violazione del corpo, direi che mi interessa l’esplorazione del corpo. Lavoro molto con il corpo, mi piace innalzarlo e idolatrarlo, mostrando tutta la bellezza fisica del personaggio (spesso femminile) al massimo della sua potenzialità, per poi annullarlo completamente in un processo di annientamento e mostrare il suo organico interno.

Per quanto riguarda il mio rapporto col body horror, ti dico che da sempre sono affascinato a questa tematica, tant’è che anche al di fuori del discorso cinema, collaboro da anni con associazioni di body suspension e body performer (sospensioni corporali, body piercing e via dicendo). Ho pure girato centinaia di ore di riprese, realizzate in varie parti del mondo per un mio documentario dal titolo “Use Your Body” (tutt’ora inedito).

Il concetto di connubio e fusione fra uomo ed elemento esterno, che uniti insieme creano un qualcosa di meraviglioso e unico, mi ha sempre affascinato e credo che anche il film Hellraiser abbia messo il suo zampino nel mio inconscio adolescenziale in questa fissa per uncini aghi, etc. Tra l’altro, spesso nei miei film sono presenti sequenze di body art reali.

Tornando al body horror è un concetto di cambiamento, di trasformazione e di innovazione, un’esasperazione della realtà. Se ci pensi, già il corpo umano, nella normalità, subisce un processo di trasformazione suddiviso in fasi come adolescenza, pubertà, età adulta, etc. Il corpo, durante il ciclo vitale, si ammala, si infetta, cova all’interno di sé la vita ma anche il male, come può essere un tumore, ad esempio, che porta alla morte: la magnificenza e l’orrore del corpo.

Io, come tanti, negli anni ho assistito alla nascita e alla morte di alcuni miei cari e questo inevitabilmente è un qualcosa che ti segna nel bene o nel male.  Il fascino del body horror cinematografico sta proprio nell’esasperazione e nella macabra caricatura di tale processo, dovuto spesso ad un agente esterno, un contatto con un virus, un morso o altro. Banalmente anche i film di vampiri, licantropi o zombie, a mio avviso, entrano nel calderone del body horror, poiché spesso si affronta il tema del cambiamento, della trasformazione psicologica e fisica del personaggio.

Per quanto riguarda la massiccia presenza di questo tema in Re-Flesh, ho voluto tematizzare e rappresentare la tecnologia, proprio come quell’elemento esterno che va a sovrastare e ad insediarsi lentamente all’interno dell’uomo. Anche qui vi è un’esasperazione (e forse nemmeno così estrema) della realtà. Tutti noi, volenti o nolenti, dipendiamo dalla tecnologia e, piano piano, le abbiamo dato l’invito ad essere sempre più presente nelle nostre vite, tanto da sovrastare e coprire le emozioni reali date dalla vita reale. Ok forse sto esagerando. É così?? Fatto sta che in Re-Flesh l’elemento esterno e il filo conduttore onnipresente è proprio la tecnologia, che nelle sue varie forme va ad invadere la vita dei vari personaggi. Questo concetto mi ha dato modo di spaziare con la fantasia e inserire nei segmenti, mostri e creature tentacolari.

Qual è il tuo rapporto con i classici del genere? Hai preso ispirazione da registi come Yuzna, Cronenberg, Tsukamoto o Fukui?

Proprio per girare Re-Flesh ho riletto gli scritti di William Gibson per trovare ulteriore ispirazione, ma soprattutto mi sono basato molto sul cinema giapponese cyber/splatter punk, poiché vedo nei film appartenenti a questo filone, i precursori della tematica del rapporto uomo/tecnologia. Inoltre quei film hanno segnato la mia adolescenza. Adoro in modo viscerale il cinema nipponico di genere e, se non ci fosse stato il “problema covid”, gran parte di Re-Flesh sarebbe stato girato proprio a Tokyo.

Amo anche i classici del body horror e i registi che hanno caratterizzato questo genere. D’altronde sono figlio degli anni ottanta e sono cresciuto nel periodo horror più variegato ed estroso: derivazioni e influenze dalle opere dei registi che hai citato, su di me, sono senza dubbio ovvie e inevitabili. Per quanto riguarda Re-Flesh, l’ispirazione più palese è quella delle opere di Shozin Fukui e Shin’ya Tsukamoto. Capolavori come Rubber’s Lovers (1996), 964 Pinocchio (1991) e Tetsuo (1989), o anime come, ad esempio, Akira, vanno a scavare nei meandri della società e la trasportano in un futuro distopico, dove vengono proprio rispecchiate le fantomatiche conseguenze degli errori che tale società ha commesso ai danni dell’uomo.

Ho potuto riscontrare nel tuo cinema anche un inaspettato aspetto ludico. Infarcisci spesso i tuoi lavori di riferimenti alla cultura pop degli anni ottanta. Dallo slime alle sembianze dei mostri che crei tu stesso. È come se riuscissi a mettere insieme violenza estrema, aneliti metafisici, ironia e gioco infantile. Ci puoi parlare di queste influenze?

Hai colto nel segno. Come già accennato, adoro gli anni 80. Non solo il cinema ma anche la cultura, la musica, i videogames e giocattoli, i cartoni animati. Mi piacciono molto i colori sparati, la fantasia e il cattivo gusto giocoso che li caratterizza. Pensa solo che in quel decennio sono stati creati e venduti giocattoli della Mattel come “Dissect an Alien” della serie “Mad Scientist”, dove lo scopo del gioco era quello di disporre correttamente le budella nel ventre di un alieno, cospargere tutto con della melma gelatinosa, richiuderlo, per poi sventrarlo nuovamente. O le figurine degli Sgorbions, davvero di cattivo gusto, ma fantastiche. Quando giocavo con questi giocattoli o con i Masters of the Universe, Ghostbusters, Boglins e altri, mi immaginavo le location e la storia di ogni personaggio, creando nella mia mente delle situazioni e storie e probabilmente la mia fantasia accentuata mi ha poi portato a fare quello che faccio oggi.

Se ci soffermiamo sul cinema di quel periodo bisogna dire che, per esempio, il cinema horror negli anni ottanta non era unilaterale. I sottogeneri erano molti e variegati. Se ci pensi, dopo, invece, siamo stati vittime di mode del momento. Prendiamo l’esempio di “Scream”(Craven, 1996), film che ritengo uno spartiacque per questo cambiamento. Il film di Craven ha rilanciato lo slasher giovanile, con attori bellocci (stile Beverly Hills 90210 in salsa horror) e da lì in poi via con la sequela di copie carbone come “Urban legend” etc. Poi è stata la volta dei Found Fotage e quindi via con l’annata di cloni di “Paranormal Activity” e “Blair Witch Project”, poi arriva l”Annata dei Torture Porn”, poi quella degli esorcismi, e così via.

Forse il lascito più eccentrico e interessante degli anni ottanta nel mio cinema è proprio questa commistione di ironia e macabro. Insomma sebbene io realizzi film definiti cupi e, a tratti, estremi, mi piace variare spesso le tematiche secondarie e metterci comunque una sorta di ironia macabra. Ad esempio, in Re-Flesh ho voluto mettere alcuni riferimenti agli anime erotici “Tentacles Rape” tanto in voga in quel decennio.

Un altro leitmotiv del tuo cinema è lo sguardo. Nei tuoi film ci sono sempre personaggi che fanno da voyeur e personaggi che subiscono lo sguardo come una forma di violenza. Penso per esempio all’episodio di Grand Guignol Madness col fotografo e la modella, che tra l’altro mi ha fatto pensare a Poe. Da dove viene questa concezione dello sguardo?

Credo di averti risposto in parte nella prima domanda. È proprio il lato voyeuristico a prevalere spesso nelle mie storie, dove lo spettatore diventa l’obbiettivo della videocamera che cattura a pieno i dettagli di ciò che succede.  É anche per questo che voglio mostrare tutti i particolari delle vicende, soprattutto nelle scene di morte o in sequenze violente. Il segmento del fotografo di Grand Guignol Madness, si congiunge ad un altro mio corto dal titolo Peep Show. In entrambi, lo spettatore è proprio il protagonista, quello che assiste, che guarda, che stupra e abusa col suo sguardo e/o obbiettivo il soggetto che funge da vittima, come se quest’ultimo fosse una preda da cacciare, uccidere e sventrare.

Nel segmento a cui ti riferisci, ogni scatto del fotografo ruba un pezzo di anima e vitalità alla modella, deturpandola e riducendola ai minimi termini. Il tutto per appagare simbolicamente la propria libido e la propria meschinità, mascherata da una semplice sessione fotografica. Anche in Dead Butterfly ho affrontato molto da vicino questa tematica, nel segmento dal titolo St. Tomà, ispirato al dipinto “SAN TOMMASO” di Caravaggio.

Scegli sempre di usare, per le creature e lo splatter, effetti artigianali analogici. Perché questa scelta?

Semplicemente perché è quello che preferisco fare nel film. Addirittura, inizialmente, i miei cortometraggi erano dei pretesti per mettere in atto i miei effetti speciali. In seguito la rilevanza di entrambe le cose si è eguagliata, ma modellare i volti, riempire i corpi di sangue finto e creare creature con mezzi di fortuna, mi diverte dannatamente e lo trovo molto più tangibile e “reale/materiale”, rispetto agli effetti realizzati col computer. Non critico questo tipo di tecnica, ma nelle mie pellicole, sinceramente, non credo ci sarà mai della CGI, se non dei semplici fondali in Chroma Key.

La concezione del male nel tuo cinema, pur nella sua materialità, ha una dimensione metafisica molto forte. Penso, ad esempio, a Suffering Bible. Qual è il tuo rapporto con la religione?

Anche in quel caso si tratta di un approccio immersivo di analisi, e non certo di blasfemia o mancanza di rispetto. Ho cominciato il mio percorso argomentativo sul peccato con Il mediometraggio Life, Death and Sins (che fa parte del mio film “Tales from Deep Hell”) che affrontava i sette peccati capitali, per poi proseguire in maniera più intensa con Suffering Bible e Dead Butterfly, i quali affrontano lo stesso tema in termini più analitici. Il peccato, compiuto dall’essere umano, è inteso come trasgressione di un determinato comandamento, fra i dieci citati nella Bibbia. Mi sono posto il problema della risposta al quesito «quanto è disposto a spingersi l’uomo per raggiungere il proprio beneficio? Quale etica, fede e moralità è disposta/o a calpestare per tutto ció?» È proprio sui dieci comandamenti visti da questo punto di vista che si basano questi due film. In Suffering Bible analizzo i primi cinque e in Dead Butterfly i cinque rimanenti.

C’è chi ha definito i miei due film blasfemi o chi non li ha voluti vedere perché li trovava religiosamente irrispettosi. Io ho una educazione cattolica e mi sono pure sposato in chiesa, per dirne una. Ciò però non può essere né un deterrente, né una scusante. Faccio cinema indipendente e le regole nel mio cinema le faccio io. Alla stessa maniera i limiti che mi pongo li determino io stesso. Se qualcuno vuole etichettare le due pellicole come blasfeme o irrispettose, va bene così: è giusto che ciascun spettatore interpreti la propria visione come meglio crede. C’è anche un terzo film ideato da me, che funge da chiusura a questo concetto ed è The Death of Ten Commandments. Si tratta di un film antologico dove, con l’aiuto di Francesco Longo ho coinvolto dieci registi e ad ognuno ho assegnato un comandamento. Io ho unicamente curato il segmento cornice. Volevo avere un ruolo esterno e avere dieci stili differenti per far emergere una differente visione di questo tema, a me caro.

Dal tuo punto di vista, cosa spinge l’uomo a trovare piacere nella messa in scena della sofferenza?

Se parli di cinema horror in generale, si tratta di puro intrattenimento e di esorcizzare le proprie paure, come quella della morte. Tanto si è sicuri che quello a cui si assiste è totalmente finto e lo si guarda nella propria comfort zone senza alcun sconvolgimento della realtà. Se ti riferisci ad un qualcosa di più profondo e personale, la risposta puó essere molteplice. Ad esempio, essendo stato nel mondo della body suspension, spesso mi chiedono «ma cosa spinge una persona ad appendersi con degli uncini conficcati nella carne?» E anche in quel caso le motivazioni sono differenti. Chi lo fa per un discorso spirituale, chi per oltrepassare i limiti, chi per scaricare la tensione tramite adrenalina etc. É molto soggettivo.

Anche il piacere nell’ assistere alla sofferenza, credo sia soggettivo, ma, generalizzando, si può dire che siamo esposti al e attratti dal sensazionalismo: si vuole vedere sempre di più ed essere in prima fila a ogni spettacolo che la vita ci riserva. Pensa a quando succede un incidente: le persone non si preoccupano della gravità o di quanto possano essere terrificanti le conseguenze. L’importante è correre a vedere quello che è successo, per appagare la propria curiosità, la propria fame di vedere e sapere per poi rafforzare la propria autostima, raccontando, ad altri, l’esperienza. E qui tutto torna e ci ritroviamo ancora una volta davanti alla figura dello spettatore e del voyeurismo anche nella realtà…

Per finire: La violenza grafica è un po’ come la pornografia: ci si avvicina ad essa guardando un classico e canonico amplesso, per poi non accontentarsi mai e voler vedere sempre di più, arrivando ad assistere alle peggiori cose. Così vale nella violenza grafica. Quello che inizialmente sconvolge, alla lunga farà parte della normalità. È una questione di processo e abitudine.

Parlando di pornografia, e in generale di erotismo, alla luce dei tuoi forti legami con il mondo del BDSM e della body suspension, qual è secondo te, se c’è, il rapporto fra il sadomasochismo e il cinema horror, in cui ci si sottopone volontariamente all’esperienza della paura?

Si lega in parte alla risposta alla domanda precedente sul piacere nel vedere qualcuno che soffre. Anche se si tratta di finzione, cinematograficamente parlando, lo spettatore, durante la visione di un film, prende parte ad una sorta di processo e lo fa in veste di giudice, da esterno. Mentre nel Bdsm, in veste di Master o Mistress, partecipa nel ruolo di boia ed esecutore. L’attrazione per la violenza spiccata più o meno, appartiene ad ogni individuo. L’aumento della libido durante un rapporto sessuale ti porta a trasformare un qualcosa di estremamente romantico in un qualcosa di più primordiale a causa del crescente eccitamento. É tutta una questione di limiti, confini e paletti che un individuo si pone. Non trascuriamo, inoltre, il fatto che la Bdsm ha un aspetto ludico non indifferente e per molti aspetti si tratta a suo modo di un gioco di ruolo. Essere vittima o carnefice? Provare piacere nell’ infliggere o nel provare dolore?

Scendendo notevolmente di livello e tornando all’esperienza ludica e leggermente autolesionista nel piacere di provare paura durante la visione di un film, si può dire che è proprio il piacere di provare un’emozione, che nella realtà sarebbe una esperienza negativa, in termini positivi. Come in un giro di giostra.

Nel tuo cinema dai molta importanza alla figura femminile. Mostri spesso il corpo della donna come la vittima predestinata di un meccanismo scopico/libidico di stampo chiaramente patriarcale. Ma ti concentri anche sul ruolo di complice/carnefice che la figura femminile assume quando accetta i termini di tale meccanismo. Inoltre c’è una terza linea interpretativa che si può applicare alla figura femminile nella tua opera. Quella per cui la donna è l’unica in grado di uscire da queste dinamiche attraverso una riconfigurazione della propria identità. Secondo me in Night of Doom sono esemplificate queste tre posizioni. Qual è, dunque, a tuo parere, la posizione della figura femminile all’interno del rapporto che il cinema intrattiene, con i suoi simboli e i suoi cliché, con l’evoluzione di una identità femminile forte ed emancipata?

La figura femminile è sempre presente nei miei film. Già nell’horror classico, la figura femminile è spesso presente e trovo che sia semplicemente perfetta per ogni ruolo. La bellezza, sinuosità e fragilità fisica che la contraddistinguono ne fanno la vittima ideale. La predominanza maschile è semplice da utilizzare come arma ai danni della debolezza femminile. D’altro canto, la donna ha il potere del fascino, dell’intelligenza, di donare la vita e altre doti che l’uomo non possiede. Tutte caratteristiche perfette da attribuire a un villain esemplare, all’interno di un film.

Inoltre amo il corpo femminile e dipendo da esso, ne sono sopraffatto e ammaliato. Prediligo appunto i soggetti femminili perché hanno una polivalenza fisica particolare e, sempre tornando al discorso iniziale della chiacchierata, adoro elevare la bellezza del loro corpo per poi mostrane visceralmente l’interno. Una sorta di eros e Thanatos estremizzato.

Spesso lavori con la forma del film a episodi. Ci puoi dire da dove viene questa scelta?

La scelta deriva da due motivi principali. In primo luogo, senza ipocrisia, ti dico che il mio livello tecnico non è eccelso. Io non ho preparazioni accademiche, né registiche, né tantomeno di sceneggiatura. Da sempre sono completamente autodidatta in tutto. Non credo di avere la capacità di imbarcarmi nel processo di stesura di una sceneggiatura classica o in quello di girare un lungometraggio tradizionale, con una storia che rispetti tutti i canoni di una “sceneggiatura di ferro”. Da sempre mi piace cucire attorno a una immagine, sogno o idea che sia, una situazione che funga da storia e che ruoti attorno a un forte filo conduttore. Quest’ultimo fa da collante e tematica per l’intero film.

In secondo luogo, oltre a dirigere film da venti anni circa, suono in due band e ne compongo i brani. Creare i miei film è per me come creare dei concept album, dove alla fine dell’ascolto di tutte le tracce, (nel caso del film dei segmenti) si ha un quadro completo del messaggio e della poetica che l’autore vuole trasmettere. O comunque soggettivamente, lo spettatore o ascoltatore, si può fare una sua idea solamente alla fine dell’esperienza, nonostante si tratti di un progetto apparentemente antologico.

Ci puoi raccontare come gestisci il workflow produttivo? Quali sono le difficoltà nel lavorare con bassi budget e, se ci sono, quali i vantaggi?

La genesi dei miei film è semplice: Mi viene in mente una storia, la sviluppo e già da quel momento ho nella mia testa, a grandi linee, il risultato, calcolando tutti gli ostacoli e difficoltà a cui dovrò andare incontro. Quando si ha un budget inesistente (o poco più), bisogna contare principalmente sulle proprie forze e su quelle dello staff che eventualmente c’è.

Quasi sempre, tranne che per la musica, visto che ho la fortuna di avere degli ottimi musicisti tra le mie fila (in Re-Flesh e nei miei ultimi tre film le musiche sono state curate dal polivalente Santo Bianchini) praticamente copro tutte le mansioni delle varie maestranze. Curo io la regia, sfx, editing, Dop, color correction e questo principalmente proprio per la mancanza di budget. D’altra parte anche se l’impegno è davvero immenso, questo mi dà la possibilità di sviluppare al volo la mia idea, sapendo esattamente quello che voglio. È anche vero che per avere un risultato di un certo tipo, uno staff di livello è indispensabile.

Per quando riguarda la produzione è doveroso dire che da qualche anno (per gli ultimi tre film) ho la fortuna di avere come co-produttore, Massimo Bezzati, grande appassionato di cinema che si occupa anche di produzione con un occhio di riguardo per il cinema indipendente di genere. Bezzati crede molto nelle risorse del cinema indipendente odierno e sicuramente nel giro di qualche anno è diventato una importante risorsa e supporto per noi registi. Allo stesso modo sono fondamentali le poche label distributive che danno uno sbocco a film di questo tipo.

In definitiva, si, è molto difficoltoso il processo produttivo ed esecutivo di un film, così come quello di post-produzione e distributivo. Il mercato home video è cambiato: L’imminente morte del supporto fisico ha lasciato posto all’evoluzione/involuzione delle piattaforme digitali e per un regista che si autopropone per il mercato, confrontandosi con varie label, piazzare al meglio il proprio lavoro è diventata un’impresa molto particolare e a volte difficoltosa. Se poi, giustamente, si vuole rientrare delle spese, impiegate per il proprio lavoro, la ricerca della label giusta deve essere, a mio avviso, maggiormente meticolosa.

Negli anni sei riuscito a costruirti uno zoccolo duro di fan, che amano il tuo lavoro e ti seguono. È stato difficile far arrivare il tuo cinema al pubblico?

Ti racconto brevemente come è andata. Tralasciando i primi esperimenti di cortometraggi adolescenziali, girati con amici, giro film esattamente dal 2000. Avendo mandato i miei shorts ad alcuni festival e avendoli resi visibili su Youtube, è capitato che qualcuno si affezionasse al mio cinema. D’altronde fino al 2017, nessuno ha mai distribuito nulla di mio. Sono sempre stato abbastanza snobbato dalle varie case distributrici italiane. È comprensibile. Sicuramente, per via delle tematiche, graficità e anche per la fattura forse più amatoriale, rispetto a pellicole ritenute comunemente vendibili.

Poi per un caso fortuito sono stato contattato dalla Black Lava, famigerata label austriaca incentrata unicamente su film horror estremi. Proprio questa etichetta ha voluto distribuire il mio film TALES FROM DEEP HELL e questo ha fatto sicuramente da apripista per farmi conoscere dagli appassionati del genere e da varie label di questo settore, che, in seguito, hanno voluto i miei film per distribuirli nel proprio paese. Di conseguenza vari appassionati hanno avuto la possibilità di vedere i miei film. Solo in seguito, anche in Italia, con l’entrata in scena sul mercato della label “Home Movies”(poi con “Digitmovies” e “Caffè da Brivido”) i miei film hanno trovato una distribuzione.

Sono consapevole di “fare” un tipo di cinema, difficile e non per tutti e capisco che è ostico vedersi un film spesso completamente muto, ma probabilmente qualcuno apprezza questo mio stile e la mia poetica e di questo ne sono molto felice e grato. Certo non posso ambire al grande pubblico, ma sinceramente non è quello che mi interessa. Faccio quello che faccio perché lo amo e mi fa stare bene, lo considero una sorta di terapia.

Stai lavorando a qualche nuovo progetto?

Ora mi sto concentrando sulla promozione e distribuzione di Re-Flesh. Negli ultimi cinque anni ho realizzato cinque lungometraggi (sto tenendo fuori dal conto i film antologici, che, fra quelli che ho ideato e organizzato e fra quelli a cui ho partecipato, sono sulla decina). Praticamente ho fatto un film all’anno. Mi sono accorto che non facevo in tempo a finire un film, che partivo subito con un altro, senza godermi l’uscita della pellicola precedente, alla cui distribuzione non davo respiro. Quindi con Re-Flesh, ho deciso di fare le cose con più calma e di prendermi un attimo di pausa.

Comunque non sono fermo del tutto. In realtà, a settembre sarò in Islanda per girare il nuovo film, che inizialmente uscirà nel 2023, sotto forma di cortometraggio, per poi evolversi e diventare un lungometraggio, che indicativamente vedrà la luce nel 2024. Si tratta, a grandi linee, di un mio omaggio personale al film “Demoniaca”(Dust Devil, 1992) di Richard Stanley. Ci saranno però anche dei piccoli rimandi a Naked Blood (1996) di Hisayasu Sato. Il tutto ovviamente sarà girato a mio modo, con una dose molto marcata di Gore e con il solito tocco di erotismo. Anche per questo progetto, ci sarà Massimo Bezzati in veste di Co-produttore.

Ti ringrazio molto per questa chiacchierata.

Grazie a te, Davide.

Articolo di Luciano Attinà