Hacksaw Ridge - Photo: courtesy of La Biennale di Venezia
Hacksaw Ridge – Photo: courtesy of La Biennale di Venezia
Hacksaw Ridge è la pellicola che segna il ritorno alla regia di Mel Gibson, esattamente dieci anni dopo il viscerale e concupiscente Apocalypto.
Non privo di una morale cattolica (e a tratti tediosamente carico di proselitismo), il film racconta la storia del primo obiettore di coscienza Desmond Doss, che rinuncia a combattere con le armi il secondo conflitto mondiale e partecipa come soccorritore, salvando la vita a 75 soldati alleati.
Mel Gibson è un abile narratore, un divulgatore contemporaneo capace di fotografare i fatti con grande passione e attraverso immagini potenti e architettoniche soprattutto quando si tratta di guerre e conflitti.
Se di retorica si vuole parlare c’è sicuramente quella componente religiosa, a cui Gibson ci ha abituato, con digressioni e considerazioni sulla fede che pongono al centro della narrazione un eroe americano.
Mosso dall’interesse non per la guerra ma per coloro che la combattono, il filmmaker dirige un’opera contemplativa e al tempo stesso spettacolare, disseminando tra i fotogrammi una serie di rimandi biblici ed evangelici che certificano la volontà del regista di porre degli interrogativi esistenziali e di rispondere attraverso le scelte compiute dal protagonista. Il lungometraggio rispecchia l’idea di Gibson di mettere in scena un kolossal imponente ed elevato, patriottico e nazionalista, che non rinuncia all’estetica ma la abbraccia grazie ad un tocco drammaturgico e all’uso dell’artificio cinematografico. Hacksaw Ridge può essere diviso in due parti distinte: la prima incentrata sulla caratterizzazione del personaggio, mostrando il suo background e i rapporti familiari fino al processo davanti alla corte marziale per farsi accettare nell’esercito; la seconda ambientata sul campo di battaglia, nella desolata landa di Hacksaw vicino a Okinawa dove Doss dimostra un monumentale coraggio e fede sconfinata.
Hacksaw Ridge - Photo: courtesy of La Biennale di Venezia
Hacksaw Ridge – Photo: courtesy of La Biennale di Venezia
L’aspetto eccezionale di Desmond Doss è il modo in cui scava in profondità nel proprio io, guarda dentro il suo cuore, e trova quello spirito che lo guida nelle azioni, nella consapevolezza che non perderà mai la vita di un uomo. È da qui che intraprende un cammino personale per rispettare la promessa, diventando l’emblema perfetto della filosofia “vivi e lascia vivere”, poiché i valori ci autorizzano ad vere potere sulla vita altrui.
La semplicità di un uomo ordinario che fa cose straordinarie poiché spinto da un motivo pacifico e solidale racchiude il pensiero di Gibson e della sua dottrina stilistica, visibile ne La Passione di Cristo e nei precedenti lavori. Nonostante la religione venga elevata, discutibilmente e banalmente, a strumento risolutivo di ogni male, il film non si limita a catechizzare lo spettatore ma lascia che il protagonista venga accolto in maniera molto personale da ciascuno. La fede può essere percepita nell’accezione del termine o come fortissima intenzione di portare cambiamento e speranza, che si creda o meno all’esistenza di Dio. La guerra con le sue atrocità e brutalità è trova riscontro nelle lunghe sequenze distruttive, nelle esplosioni che riprendono i corpi mentre si smembrano. Preceduta da un omaggio al Full Metal Jacket di Stanley Kubrick, la lunghissima battaglia di Hacksaw Ridge è tanto maestosa quanto pleonastica e trascina lo spettatore catturandolo con dettagli vivi e vibranti. La scena notturna del salvataggio dei superstiti è cadenzata da un andamento altalenante di emozioni, pur sempre mantenendo un livello altissimo di tensione.
Il finale, poi, commuovere guidando il pubblico nella dimensione reale della vicenda, forse prevedibile e vicino ad un certo tipo di cinema americano (fra tutti quello di Clint Eastwood) che strizza l’occhio all’Academy e racconta le gesta degli eroi comuni, senza costume o mantello, ma con un’infinita forza d’animo.
Michela Vasini & Andrea Rurali
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