Dopo il feroce e spietato One On One, presentato alla 71. Mostra di Venezia, Kim Ki-Duk torna al Lido con la sua ultima fatica Geumul (The Net). Confermando l’interesse recente per le storie contemporanee, connesse all’attualità e allo spaccato sociale, l’imprevedibile cineasta sud-coreano firma un lungometraggio cinico e provocatorio che focalizza l’attenzione sul rapporto tra l’uomo e l’ideologia politica radicata nel luogo di provenienza.
Geumul pone sotto la lente d’ingrandimento la vicenda di Nam Chul-woo, un pescatore della Corea del Nord che sconfina nei mari della Corea del Sud per colpa di un guasto alla sua imbarcazione. Catturato e brutalmente interrogato dalle forze di sicurezza del Paese ‘rivale’, con l’accusa di essere una spia, Nam Chul-woo viene rimpatriato poiché le prove a suo sfavore risultano insufficienti. La permanenza in un bunker di massima sorveglianza cambierà per sempre la sua vita e gli consentirà di riflettere sul lato cancerogeno di quella società ormai sedotta dal consumismo e dall’inarrestabile sviluppo economico.
La capacità di Kim Ki-Duk, nella recente fase della sua carriera, è quella di sintetizzare la realtà socio-politica della Corea, divisa da una cortina diplomatica tra Nord e Sud, avvalendosi di storie e personaggi con un forte messaggio alle spalle e mostrando, con chiarezza e incisività, quanto la verità sia un’arma a doppio taglio utilizzata da potenze ‘nemiche’ per perseguire i propri fini. È evidente come nel film il protagonista sia lacerato dalle sue certezze e convinzioni, perché considerate infondate e inattendibili dai suoi interlocutori. Questi ultimi, attraverso la tortura fisica e un subdolo gioco psicologico, cercano ad ogni costo di liberarlo dall’inflessibile regime comunista del Nord ma la propensione e il senso di appartenenza al proprio paese, unito alla volontà di ricongiungersi con la famiglia, portano Nam Chul-woo a intraprendere un duro percorso di resistenza.
Il titolo racchiude il senso metaforico dell’intero lungometraggio: un pescatore che viene pescato con il suo stesso amo e una rete che lo imprigiona impossibile da sbrogliare. La riunificazione è un lontano miraggio per due nazioni piene di contraddizioni e analogie, ed è proprio questo che spinge Nam Chul-woo a rinunciare alla proposta di tradire il Nord, abbandonando così la moglie e la figlia. Costruito come un incubo lancinante di kafkiana memoria, il cineasta mette a nudo una pratica assai diffusa nella sua terra di origine, quella di portare i prigionieri politici a disertare per soldi, palesando di conseguenza l’inconciliabilità e il diniego all’unione tra le due Coree.
Con uno stile analitico e diretto, Kim Ki-Duk traccia una parabola discente sul sacrificio e sulla condizione precaria di libertà, fisica e di pensiero, che inevitabilmente genera tristezza e provoca spaccature difficili da sanare. Una pellicola che fa riflettere sul senso di giustizia e sul sacrificio in favore di una moralità da preservare e per cui lottare. Deciso.