
Associare il cinema italiano alla fantascienza risulta piuttosto complicato. Tralasciando una pur eroica parentesi produttiva nel periodo d’oro del nostro cinema di genere (anni ’60 e ’70), astronavi, basi militari segrete e scienziati alla ricerca di forme di vita extra-terrestre non appartengono certo alla tradizione culturale e cinematografica italiana. Tuttavia, si possono notare negli ultimi anni alcuni tentativi di trapiantare (in maniera, bisogna specificare, poco più che goliardica) dinamiche e strategie espressive fortemente collaudate nell’immaginario, grazie soprattutto alla fantascienza statunitense, all’interno di piccole o medie produzioni nostrane. Pellicole come L’ultimo terrestre del fumettista Gian Alfonso Pacinotti (conosciuto come Gipi) o L’arrivo di Wang dei Manetti Bros. sono esempi rilevanti di questa tendenza, e anche Tito e gli alieni, secondo lungometraggio di Paola Randi, deve essere letto in quest’ottica.
Valerio Mastandrea è Il Professore, bizzarro scienziato che dopo la morte della moglie vive isolato nel deserto del Nevada, lavorando per il governo degli Stati Uniti a un progetto segreto relativo all’Area 51. Il suo unico rapporto umano è con Stella (Clemence Poesy), organizzatrice di matrimoni per turisti alla ricerca di alieni, almeno fino alla comunicazione della morte del fratello Fidel (Gianfelice Imparato) e all’affidamento dei nipoti Tito e Anita (interpretati dai giovanissimi Luca Esposito e Chiara Stella Riccio).
