Wes Anderson fa rivivere le pagine di Dahl nel suo The Wonderful Story of Henry Sugar, presentato fuori concorso a Venezia 80. Recensione.
Di cosa parla The Wonderful Story of Henry Sugar?
Al centro della storia c’è Henry Sugar (Benedict Cumberbatch), che viene a conoscenza dell’esistenza di un guru (Ben Kingsley) in grado di vedere senza usare gli occhi. Incuriosito, Henry decide di imparare a padroneggiare questa tecnica per barare al gioco d’azzardo. Nel cast del nuovo mediometraggio di Wes Anderson troviamo anche Ralph Fiennes, nelle vesti di narratore, e Dev Patel.
- Leggi anche: The Wonderful Story of Henry Sugar ha una data d’uscita
Scatole cinesi
Wes Anderson arriva al Lido di Venezia per presentare The Wonderful Story of Henry Sugar, primo dei quattro mediometraggi da lui diretti per Netflix e ispirati ai racconti dello scrittore inglese Roald Dahl.
Wes Anderson, che in passato aveva già adattato Dahl nel suo Fantastic Mr. Fox., in questa occasione non riesce a sorprendere. Fermo nel suo immobilismo estetico e quasi relegato a trend di Tik Tok, il cineasta americano tira fuori l’ennesima scatola cinese di narrazioni nelle narrazioni, film nel film, storia nella storia. Per quanto il risultato sia sicuramente divertente, The Wonderful Story of Henry non fa altro che essere l’ennesimo esercizio di stile di Anderson, sempre più ancorato al manierismo e alla confezione.
Estetica senza sostanza
L’azione è statica e come al solito le inquadrature incorniciano personaggi che letteralmente leggono il testo parlando in camera, con poca interpretazione.
Il mondo di The Wonderful Story of Henry è pieno di scenografie che si muovono le une sulle altre adattandosi alla storia e mantenendo quella rigosa simmetria che ne fa il marchio di fabbrica di Anderson.
L’opera scorre, è godibile e piacevole, ma fatica ad approfondire i personaggi che, a conti fatti, finiscono per diventare delle marionette meccaniche.
L’infinità delle narrazioni
The Wonderful Story of Henry è un’opera di buoni sentimenti e umorismo in cui si manifesta, preponderante, l’immaginario ossessivo-compulsivo di Anderson. La sensazione è che il regista abbia imboccato una strada senza ritorno, quella dell’ostinazione per la messa in scena fatta di linee, tonalità pastello, effetti matrioska e un infinito gioco di moltiplicazione di storie.