Alla 79. Mostra di Venezia arriva Darren Aronofsky con il suo The Whale. 

Se si parte dalla fine, quella di The Whale è una storia che può essere letta con due occhi differenti. Uno è carico di speranza, di chi crede che la cura degli altri sia una forza che cammina da sola e si propaga fuori controllo generando però solo cose belle. L’altra lettura, che il film sconsiglia ma che si potrebbe comunque fare, è cinica anti retorica. Cioè che tutta la vicenda di Charlie sia l’illusione che nel mondo si possano sistemare le cose, quando invece tutto avviene per puro caso e l’impatto che una persona può avere sulle vite altrui è minimo. Si può sopravvivere insieme ma ci si salva da soli (o per un caso fortunato).

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Un film commovente

Aronofsky (Mother!) sceglie chiaramente la prima prospettiva con la sua regia, ma riesce a lasciare comunque uno spiraglio per lo spettatore meno propenso alle lacrime facili e ai finali commoventi. Ed è questa sottile ambiguità che rende il film degno di essere visto, amato e ricordato. Perché The Whale è il Charlie di Brendan Fraser, qui alla sua interpretazione della vita. Un uomo dall’animo delicato e affranto. È obeso, una enorme balena in una casa strettissima. O, per lo meno, questo lui crede. Ha un dolore dentro che non si placa, che lo costringe a lenire quelle ferite invisibili ingerendo continuamente cibo. Sin dal primo minuto in cui lo vediamo inizia un conto alla rovescia. Il suo cuore sta per cedere. L’unica salvezza è andare in ospedale, ma per Charlie non se ne parla. 

Girato in un 4:3 che prende la forma del suo protagonista, The Whale è cinema sentimentale della miglior fattura. Perché non cade mai nel vittimismo, procede invece come farebbe un cartone animato della Pixar: una lacrima per ogni risata. 

La sceneggiatura viene da un testo teatrale e si vede. Tutto ambientato in una casa, il film eccede in un intreccio più aggrovigliato del necessario. Difetti di struttura (in particolare nei personaggi del missionario e dell’ex moglie) che vengono ampiamente (ri)compensati dalla potenza emotiva del rapporto tra Charlie e la figlia Ellie (una performance matura di Sadie Sink).

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Tra immagini ed emozioni

Anche la storia di un uomo può essere epica. Aronofsky infonde così tutta le energia possibile in un singolo movimento. Riconciliarsi con il proprio passato è uno sforzo che richiede sudore, sporcizia, vomito e puzza. Altro che la pulizia a cui ci ha abituato Hollywood, che presta il fianco allo spettatore anche quando vuole essere sovversivo. The Whale è un film disgustoso, dove il disgusto è una scelta ed è l’emozione che si può provare verso l’aspetto trasandato e gigantesco del protagonista. Questa emozione sincera, che Charlie stesso chiede alle persone, si sostituisce con una tenerezza da togliere il fiato.

Fraser recita con mani, corpo e anima, senza rinascere mai, solo imparando ad esistere. Avercene di opere del genere, capaci di usare tutti gli artifici retorici possibili per arrivare però alle emozioni più sincere. È l’apoteosi del compatire, nella sua eccezione letterale: soffrire con. Ci si sente impotenti guardando The Whale, esattamente come Charlie. Ci si sente in costante pericolo grazie a una scrittura e un montaggio ben conscio dei meccanismi della tensione. Un piccolo oggetto, un imprevisto, innescano scene di un dolore fisico empiricamente travolgente.

Dopo il gran finale che mostra tutto quello che il film ha a disposizione (qualcuno amerà quella sequenza, altri usciranno dall’immersione) si ricorda però l’immagine più bella: le strumentazioni mediche che valutando i parametri del corpo vogliono sondare lo stato emotivo di Charlie. Un uomo paralizzato dalla sua stazza, che convive con un misterioso dolore così sfuggente da segnargli l’anima. Se la fine è già scritta, la scelta di come finire è in mano a ciascuno di noi.

Presentato in concorso a Venezia 79.

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